Verifiche periodiche attrezzature a pressione

Verifiche periodiche attrezzature a pressione   Gruppo GVR

Verifiche periodiche attrezzature a pressione - Gruppo GVR / Maggio 2022

ID 5825 | Update Rev. 1.0 del 17.05.2022

Documento illustrativo della Procedura di verifica delle attrezzature a pressione, Gruppo GVR del DM 11 aprile 2011 Disciplina delle modalità di effettuazione delle verifiche periodiche, sono previste:

1. Prima verifica periodica
2. Verifica periodica di funzionamento; 
3. Verifica periodica interna;
4. Verifica periodica di integrità (decennale).

Allegati documenti:
- Lista di controllo apparecchi a pressione
- Modello verbale prima verifica periodica
- Modulo classificazione attrezzatura a pressione

[box-warning]Portale CIVA (Servizi telematici di Certificazione e Verifica Impianti e Apparecchi)

Dal 27 maggio 2019 i servizi di certificazione e verifica di impianti e apparecchi INAL si richiedono on line con il nuovo applicativo messo a disposizione dall’Inail consente di richiedere on line i servizi più significativi, tra cui l’immatricolazione e la messa in servizio, relativi a impianti e attrezzature.

Richieste di verifica che è possibile presentare per gli Apparecchi a pressione:

- Verifica di messa in servizio;
- Verifica e dichiarazione di messa in servizio (richiesta Contestuale);
- Dichiarazione di messa in servizio;
- Dichiarazione di messa in servizio art.5 DM 329/04 comma b), c) e d);
- Prima verifica periodica.

Dal 16 luglio 2020 è attivo il nuovo servizio online per la comunicazione del nominativo dell’organismo abilitato incaricato di effettuare le verifiche periodiche per gli impianti di messa a terra (art.7-bis DPR 462/01), per le attrezzature a pressione non previsto al momento (data news).

Vai al portale CIVA[/box-warning]

Verifiche periodiche attrezzature a pressione

Le attrezzature a pressione, sono soggette a verifiche periodiche in accordo con:

DM 11 aprile 2011 
“Disciplina delle modalità di effettuazione delle verifiche periodiche di cui all'All. VII del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, nonché i criteri per l'abilitazione dei soggetti di cui all'articolo 71, comma 13, del medesimo decreto legislativo”.

- Decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 
"Attuazione dell'articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro"

Art.71 co. 11

Oltre a quanto previsto dal comma 8, il datore di lavoro sottopone le attrezzature di lavoro riportate nell’ALLEGATO VII a verifiche periodiche volte a valutarne l’effettivo stato di conservazione e di efficienza ai fini di sicurezza, con la frequenza indicata nel medesimo ALLEGATO. 
Per la prima verifica il datore di lavoro si avvale dell’INAIL, che vi provvede nel termine di quarantacinque giorni dalla richiesta. 
Una volta decorso inutilmente il termine di quarantacinque giorni sopra indicato, il datore di lavoro può avvalersi, a propria scelta, di altri soggetti pubblici o privati abilitati secondo le modalità di cui al comma 13. 
Le successive verifiche sono effettuate su libera scelta del datore di lavoro dalle ASL o, ove ciò sia previsto con legge regionale, dall’ARPA, o da soggetti pubblici o privati abilitati che vi provvedono secondo le modalità di cui al comma 13. 
Per l’effettuazione delle verifiche l’INAIL può avvalersi del supporto di soggetti pubblici o privati abilitati. 

- Periodicità in accordo con l'allegato VII del decreto legislativo n. 81/2008:

Attrezzatura

Intervento/periodicità

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 1 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Recipienti/insiemi classificati in III e IV categoria, recipienti contenenti gas instabili appartenenti alla categoria dalla I alla IV, forni per le industrie chimiche e affini, generatori e recipienti per liquidi
surriscaldati diversi dall'acqua.

Verifica di funzionamento: biennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 1 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Recipienti/insiemi classificati in I e II categoria.

Verifica di funzionamento: quadriennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 1 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Tubazioni per gas, vapori e liquidi surriscaldati classificati nella I, II e III categoria

Verifica di funzionamento: quinquennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 1 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Tubazioni per liquidi classificati nella I, II e III categoria

Verifica di funzionamento: quinquennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 1 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Recipienti per liquidi appartenenti alla I, II e III categoria.

Verifica di funzionamento: quinquennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 2 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Recipienti/insiemi contenenti gas compressi, liquefatti e disciolti o vapori diversi
dal vapor d'acqua classificati in III e IV categoria e  recipienti di vapore d'acqua
e d'acqua surriscaldata appartenenti alle categorie dalla I alla IV

Verifica di funzionamento: triennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 2 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Recipienti/insiemi contenenti gas compressi, liquefatti e disciolti o vapori diversi
dal vapor d'acqua classificati in I e II categoria

Verifica di funzionamento: quadriennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 2 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Generatori di vapor d'acqua.

Verifica di funzionamento: biennale
Visita interna: biennale
Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 2 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Tubazioni gas, vapori e liquidi surriscaldati classificati nella III categoria, aventi TS < 350 °C

Verifica di integrità: decennale

Attrezzature/insiemi contenenti fluidi del gruppo 2 (D.lgs. 93/2000 art. 3)
Tubazioni gas, vapori e liquidi surriscaldati classificati nella III categoria, aventi TS > 350 °C

Verifica di funzionamento: quinquennale
Verifica di integrità: decennale

Generatori di calore alimentati da combustibile solido, liquido o gassoso
per impianti centrali di riscaldamento utilizzanti acqua calda sotto pressione
con temperatura dell'acqua non superiore alla temperatura di ebollizione
alla pressione atmosferica, aventi potenzialità globale dei focolai superiore a 116 kW

Verifica quinquennale

 
La verifica delle attrezzature del gruppo GVR del D.M. 11 aprile 2011:

1.1.3. Gruppo GVR - Gas, Vapore, Riscaldamento 

 Gruppo GVR Figura 1Gruppo GVR Figura 2

a) Attrezzature a pressione: 

1. Recipienti contenenti fluidi con pressione maggiore di 0,5 bar
2. Generatori di vapor d’acqua
3. Generatori di acqua surriscaldata (*)
4. Tubazioni contenenti gas, vapori e liquidi
5. Generatori di calore alimentati da combustibile solido, liquido o gassoso per impianti centrali di riscaldamento utilizzanti acqua calcia sotto pressione con temperatura dell’acqua non superiore alla temperatura di ebollizione alla pressione atmosferica, aventi potenzialità globale dei focolai superiori a 116 kW (**)
6. Forni per le industrie chimiche e affini.

(*) da trattarsi come generatori di vapor d’acqua o impianti di riscaldamento in accordo all’articolo 3 del decreto ministeriale 1° dicembre 1975
(**) per gli obblighi di verifica relativi all’impianto di riscaldamento si rimanda al punto 4.6.1.
_______

D.M. 11 aprile 2011

4. Verifica delle attrezzature del gruppo GVR

4.1. Periodicità delle verifiche

4.1.1. Per le attrezzature/insiemi a pressione di cui al punto 1.1.3 del presente allegato le periodicità sono regolamentate secondo lo schema riportato nell’allegato VII del decreto legislativo n. 81/2008.

Per le attrezzature costruite in assenza delle specifiche disposizioni legislative e regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie di prodotto, la categorizzazione è definita dal datore di lavoro ai sensi dell’allegato II del decreto legislativo n. 93 del 25 febbraio 2000. Restano ferme le esclusioni e le esenzioni dalle verifiche periodiche per le attrezzature di cui agli articoli 2 e 11 del decreto ministeriale 1° dicembre 2004, n. 329.

4.1.2. Per le attrezzature/insiemi di cui al presente punto 4. per verifiche periodiche si intendono:

[alert]a) La «prima delle verifiche periodiche»:
b) Le «verifiche periodiche successive»:
b1) di funzionamento;
b2) interna;
b3) di integrità (decennali). [/alert]

4. 1.3. Le verifiche di efficienza e funzionalità degli accessori di sicurezza seguono la periodicità dell’attrezzatura a pressione cui sono destinati o con cui sono collegati.

4.1.4. Periodicità delle verifiche, differenti da quelle di cui all’allegato VII del decreto legislativo n. 81/2008, e tipologia di ispezioni alternative a quelle stabilite ai punti seguenti, ma tali da garantire un livello di rischio equivalente, potranno essere autorizzate in deroga, previa richiesta da inoltrare al Ministero dello sviluppo economico.

4.2. La prima delle verifiche periodiche

4.2.1. La prima delle verifiche periodiche viene eseguita sulle attrezzature previste dall’allegato VII del decreto legislativo n. 81/2008 ad eccezione di quelle escluse ai sensi degli articoli 2 e 11 del decreto ministeriale 1° dicembre 2004, n. 329.

4.2.2. La prima delle verifiche periodiche andrà eseguita secondo la periodicità di cui all’allegato VII del decreto legislativo n. 81/2008 a decorrere dalla data di messa in servizio dichiarata dal datore di lavoro.

4.2.3. I controlli da eseguire in sede di «prima delle verifiche periodiche», in aggiunta a quelli di cui al punto 4.3.1., sono i seguenti:

a. Individuazione dell’attrezzatura (o delle attrezzature componenti l’insieme).
b. Verifica di corrispondenza delle matricole rilasciate dall’ISPESL o dall’INAIL all’atto della dichiarazione di messa in servizio sulle attrezzature (certificate singolarmente o componenti un insieme) rientranti nelle quattro categorie del decreto legislativo n. 93 del 25 febbraio 2000 non escluse dalle verifiche periodiche del decreto ministeriale 1° dicembre 2004 n. 329; per gli insiemi di limitata complessità (criogenici, cold-box, apparecchi di tintura, generatori di vapore a tubi da fumo. ecc.) nel caso in cui il datore di lavoro ha richiesto. in sede di dichiarazione di messa in servizio, esplicitamente di voler considerare l’insieme stesso come unità indivisibile, la verifi ca di corrispondenza riguarda la matricola unica dell’insieme.
c. constatazione della rispondenza delle condizioni di installazione, di esercizio e di sicurezza con quanto indicato nella dichiarazione di messa in servizio di cui all’articolo 6 del decreto ministeriale 1° dicembre 2004, n. 329:
d. controllo della esistenza e della corretta applicazione delle istruzioni per l’uso del fabbricante.

4.2.4. Per gli insiemi verrà redatto un verbale di prima verifica periodica per ogni attrezzatura immatricolata costituente l’insieme. Occorre anche riportare sul verbale di ogni singola attrezzatura immatricolata il riferimento al numero identificativo dell’insieme di cui fa parte, indicato nella dichiarazione di conformità dell’insieme stesso. Si dovrà procedere a redigere una relazione complessiva sulla certificazione e protezione dell’insieme c sul rispetto delle istruzioni per l’uso. da inserire nella banca dati informatizzata di cui all’articolo 3, comma l del presente decreto. Nel caso di insieme immatricolato come un’unica unità indivisibile considerando tutte le attrezzature dell’insieme come «membrature» che non verranno immatricolate e subiranno singolarmente la periodicità di controllo previste dalla categoria dell’insieme verrà redatto un unico verbale complessivo per tutte le attrezzature dell’insieme.

4.2.5. Nel verbale della prima delle verifiche periodiche, da compilare per ciascuna delle attrezzature immatricolate dell’insieme (o nel verbale relativo all’insieme nel suo complesso nel caso di insieme considerato come unità indivisibile), occorre evidenziare per le attrezzature componenti l’insieme:

[alert]a) quelle marcate CE;

Marcatura CE GVR

b) quelle non marcate CE ed omologate ISPESL;

c) quelle non marcate CE e garantite dalla marcatura CE dell’insieme. [/alert]

4.3. Le verifiche periodiche successive

4.3.1. La verifica di funzionamento

4.3.1.1. La verifica di funzionamento consiste nei seguenti esami e controlli:

a) esame documentale:
b) controllo della funzionalità dei dispositivi di protezione:
c) controllo dei parametri operativi.

4.3.1.2. I controlli di cui alla lettera al vengono effettuati sulla base della documentazione rilasciata a seguito della prima delle verifiche periodiche.

I controlli di cui alla lettera b) possono essere effettuati con prove a banco, con simulazioni, oppure, ove non pregiudizievoli per le condizioni di funzionamento, in esercizio. In particolare per le valvole di sicurezza. il controllo può consistere nell’accertamento di avvenuta taratura entro i limiti temporali stabiliti dal fabbricante e, comunque, entro i limiti relativi alle periodicità delle verifiche di funzionalità relative all’attrezzatura a pressione a cui sono asservite.

I controlli di cui alla lettera c) sono finalizzati all’accertamento che i parametri operativi rientrino nei limiti di esercizio previsti. Lo scarico dei dispositivi di sicurezza deve avvenire in modo da non arrecare danni alle persone. L’installazione di valvole di intercettazione sull’entrata e sull’uscita dei condotti delle valvole di sicurezza è consentita. qualora non in contrasto con quanto indicato nelle istruzioni per l’uso, su motivata richiesta del datore di lavoro in particolare nel caso di fluidi infiammabili, tossici, corrosivi o comunque nocivi. Le valvole di intercettazione devono essere piombate in posizione di apertura a cura dell’INAIL o delle ASL ai quali vanno segnalate tempestivamente le manovre che abbiano comportato manomissioni del sigillo.

4.3.1.3. Durante la verifica di funzionamento devono anche essere annotati tutti gli eventuali interventi di riparazione intercorsi accertandone la correttezza in base alle istruzioni per l’uso rilasciate dal fabbricante o alle procedure di cui all’articolo 14 del decreto ministeriale 1° dicembre 2004, n. 329.

4.3.2. La verifica di integrità decennale

4.3.2.1. La verifica di integrità consiste nell’accertamento dello stato di conservazione delle varie membrature mediante esame visivo delle parti interne ed esterne accessibili ed ispezionabili, nell’esame spessimetrico ed altri eventuali prove, eseguiti da personale adeguatamente qualificato incaricato dal datore di lavoro, che si rendano necessari:

a) data la non completa ispezionabilità dell’attrezzatura:
b) qualora emergessero dubbi sulla condizione delle membrature;
c) a fronte di situazioni evidenti di danno;
d) in base alle indicazioni del fabbricante per attrezzature costruite e certificate secondo le direttive di prodotto (97/23/CE, 87/404/CEE, 90/488/CEE).

4.3.2.2. Ove nella rilevazione visiva e strumentale o solamente strumentale si riscontrano difetti che possono in qualche modo pregiudicare l’ulteriore esercizio dell’attrezzatura, vengono intraprese per l’eventuale autorizzazione da parte del soggetto titolare della verifica, le opportune indagini supplementari, effettuate dal datore di lavoro. atte a stabilire non solo l’entità del difetto ma anche la sua possibile origine. Ciò al fine di intraprendere le azioni più opportune di ripristino della integrità strutturale del componente, oppure a valutarne il grado di sicurezza commisurato al tempo di ulteriore esercizio con la permanenza dei difetti riscontrati. Nel caso siano intraprese tali valutazioni (Fitness For Service - FFS-), per stabilire il tempo di ulteriore esercizio con la permanenza dei difetti riscontrati. le stesse valutazioni andranno notificate dal datore di lavoro ai soggetti titolari della verifica che dovranno autorizzare l’ulteriore esercizio. Le autorizzazioni rilasciate devono essere notificate all’INAIL per l’inserimento nella banca dati informatizzata, di cui all’articolo 3, comma 1, del presente decreto. ed alle ASL competenti per territorio.

4.3.2.3. Quando l’attrezzatura ha caratteristiche tali da non consentire adeguate condizioni di accessibilità all’interno. anche nei riguardi della sicurezza, o risulta comunque non ispezionabile completamente. l’ispezione è integrata. limitatamente alle camere non ispezionabili, con una prova di pressione idraulica a 1.125 volte la «pressione massima ammissibile» (PS) che può essere effettuata utilizzando un fluido allo stato liquido.

4.3.2.4. La non completa ispezionabilità può essere conseguente alla presenza, su parti rappresentative del recipiente, di masse interne o rivestimenti interni o esterni inamovibili, anche parzialmente. o la cui rimozione risulti pregiudizievole per l’integrità delle membrature o dei rivestimenti o delle masse stesse.

4.3.2.5. La prova di pressione idraulica può essere sostituita. in caso di necessità e previa predisposizione da parte dell’utente di opportuni provvedimenti di cautela. con una prova di pressione con gas (aria o gas inerte) ad un valore di 1,1 volte la «pressione massima ammissibile» (PS). In tale caso dovranno essere prese tutte le misure previste dal decreto legislativo n. 81/2008 per tale tipo di prova la stessa deve avere una durata minima di due ore durante le quali deve essere verificata l’assenza della caduta di pressione.

4.3.2.6. La verifica di integrità per le tubazioni non comporta obbligatoriamente né la prova idraulica né l’esame visivo interno. ma opportuni controlli non distruttivi per l’accertamento della integrità della struttura.

4.4 Verifica di visita interna per generatori di vapore

4.4.1. La visita interna consiste nell’esame visivo delle parti dei generatore accessibili ed ispezionabili, tanto internamente che esternamente.

4.4.2. Qualora durante la verifica emergessero dubbi sulla condizione delle membrature o in caso di necessiti, a fronte di situazioni evidenti di danno, è consentito avvalersi di ulteriori esami e prove, eseguiti da personale adeguatamente qualificato incaricato dal datore di lavoro, al fi ne di accertare la permanenza delle condizioni di stabilità per la sicurezza dell’esercizio del generatore stesso.

4.5. Verifica di funzionamento per generatori di vapore

4.5.1. Per i generatori di vapore oltre agli esami e controlli previsti al punto 4.3.1.1 si effettua, durante la verifica di funzionamento, la verifica di rispondenza dei parametri dell’acqua di alimento con quanto richiesto nelle istruzioni per l’uso. In mancanza di tale informazione si può far riferimento alle relative norme applicabili. Durante la verifica deve essere riscontrata la presenza del conduttore abilitato, quando previsto.

4.6. Verifica di impianti di riscaldamento

4.6.1. Gli impianti di riscaldamento centralizzati con generatore di calore di potenzialità superiore a 116 kW devono rispettare. qualora non in contrasto con quanto indicato nelle istruzioni per l’uso. le prescrizioni della Raccolta R dell’ISPESL.

4.7. Verifiche periodiche di attrezzature particolari

4.7.1. I recipienti di capacità fino a 13 m 3 contenenti GPL possono usufruire dell’esonero dalle verifiche periodiche di cui ai precedenti punti 4.2. e 4.3.1. alle condizioni di cui all’articolo 3 del decreto del 29 febbraio 1988 di cui all’articolo 6 del presente decreto.[/box-note]

[box-note]Decreto 29 febbraio 1988
.
..

Art. 3. Verifiche annuali di esercizio

I recipienti di cui all'art. 1 di capacita' non superiore a 5000 litri possono fruire dell'esonero della prescrizione relativa alla verifica annuale di esercizio di cui all'art. 9 del decreto ministeriale 21 maggio 1974 a condizione che la ditta fornitrice del gas si impegni a:

a) proteggere gli accessori di sicurezza e di controllo dagli agenti atmosferici;
b) effettuare in occasione del riempimento e comunque con scadenza non superiore all'anno, il controllo dello stato di conservazione della superficie protettiva esterna del recipiente e della funzionalita' degli accessori;
c) sostituire, almeno ogni due anni, la valvola di sicurezza con altra previamente tarata al banco in presenza dell'ISPESL. Restano ferme, per l'esonero, le disposizioni generali di cui al capo I del decreto ministeriale 21 maggio 1974. La domanda di esonero dovra' essere sottoscritta, oltre che dall'utente, anche dalla ditta fornitrice del gas.[/box-note]

[box-note]...
4.7.2. Le modalità di effettuazione della verifica di integrità sui recipienti di capacità non superiore a 13 m 3 contenenti GPL con verifiche a campione a mezzo della tecnica dell’emissione acustica, nonché le modalità di riconoscimento e di sorveglianza dei soggetti abilitati all’effettuazione delle suddette verifiche restano disciplinate dal decreto del 23 settembre 2004 di cui all’articolo 6 del presente decreto.

4.7.3. Per i serbatoi criogenici con intercapedine isolante sottovuoto non soggetti ad azione interna di corrosione o di abrasione o di erosione, la verifica d’integrità consiste in una prova pneumatica, di norma mediante lo stesso gas contenuto. alla pressione di 1.1 volte la «pressione massima ammissibile» (PS). ed in una prova di ermeticità al vuoto. Il grado di vuoto nell’intercapedine sarà spinto fino a 1000 micron Hg e sarà controllato con un vacuometro; la prova avrà la durata minima di 3 ore dopo la stabilizzazione della pressione e del grado di vuoto. Al termine della prova il grado di vuoto nell’intercapedine, letto al vacuometro, non dovrà discostarsi dalla lettura iniziale. Non è richiesto il controllo spessimetrico.

4.7.4. Le attrezzature/insiemi itineranti, che in relazione al loro impiego possono essere movimentati frequentemente da un luogo di lavoro all’altro, possono essere assoggettati a verifica periodica direttamente presso il magazzino distributore anziché presso il cantiere di lavoro.

4.7.5. Per le attrezzature che lavorano in condizioni di regime tali per cui possono essere significativi fenomeni di scorrimento viscoso o di fatica oligociclica, si osservano le prescrizioni tecniche vigenti in materia. Le autorizzazioni all’ulteriore esercizio vengono rilasciate dall’INAIL sulla base della valutazione effettuata dal datore di lavoro.

4.8. Considerazioni generali

4.8.1. Ove la verifica abbia evidenziato situazioni di criticità per l’esercizio, il soggetto incaricato deve ordinare il divieto d’uso della attrezzatura.

4.8.2. Ove anche a seguito di riparazioni, sostituzioni o modifiche l’attrezzatura non dia garanzia di idoneo funzionamento essa deve declassata, utilizzato a pressione atmosferica o demolita.[/box-note]
...
segue in allegato

Fonti: 
DM 11 aprile 2011 
decreto legislativo n. 81/2008
D.lgs. 93/2000
DM 1° dicembre 2004, n. 329

Elaborato Certifico Srl - IT | Rev. 1.0 2022
©Riproduzione autorizzata Abbonati

Matrice Revisioni

Rev. Data Oggetto Autore
1.0 17.05.2022 - Aggiornato Rif. Portale CIVA
- Aggiunto modello verbale 1° verifica periodica
- Aggiunta check list di controllo verifica
- Modulo classificazione attrezzatura a pressione
- Aggiornati rif. normativi
- Aggiornati link rif. normativi
Certifico Srl
0.0 22.03.2018 --- Certifico Srl

Collegati:
[box-note]D.Lgs. 81/2008 Testo Unico Salute e Sicurezza Lavoro
D.M. 11 aprile 2011 Verifica impianti e attrezzature
Decreto 93/2000 PED Coordinato 2016: Nuova Direttiva PED 2014/68/UE
Decreto 1 dicembre 2004 n. 329
Controllo periodico decennale serbatoi interrati GPL metodo EA
Procedure Verifiche periodiche Attrezzature
Verifiche attrezzature e insiemi a pressione: UNI 11325-12:2018
Check list verifiche attrezzature in pressione
Civa: online nuovo servizio per il rilascio dell’esonero dalla conduzione abilitata dei generatori di vapore
CIVA | Servizi telematici certificazione e verifica impianti e apparecchi
Recipienti a pressione - Istruzioni prima verifica periodica d.m. 11 aprile 2011
Database Soggetti abilitati verifiche periodiche[/box-note]

Cassazione Penale Sent. Sez. 3 Num. 3255 | 27 Gennaio 2021

Sentenze cassazione penale

Cassazione Penale Sez. 3 del 27 gennaio 2021 n. 3255

Videosorveglianza: non si configura il reato di cui all'art. 4, l. 300/70 se l'impianto mira ad accertare gravi condotte illecite dei dipendenti

Secondo una precedente decisione, «ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori ex L. n. 300 del 1970, art. 4 è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l'attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall'ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cd. controlli difensivi).

Ad avviso del Collegio dunque, deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300, quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.

Il giudice del rinvio accerterà, compiendo tutti gli accertamenti ritenuti necessari, se l'installazione del sistema di videosorveglianza riscontrato dagli Ispettori del Lavoro fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, e, in caso di risposta affermativa, se l'utilizzo dell'impianto avesse comportato un controllo non occasionale sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, oppure dovesse restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.

Penale Sent. Sez. 3 Num. 3255 Anno 2021
Presidente: ANDREAZZA GASTONE
Relatore: CORBO ANTONIO
Data Udienza: 14/12/2020

[panel]Ritenuto in fatto

1. Con sentenza emessa in data 19 giugno 2019, il Tribunale di Viterbo ha dichiarato K.W.Y. colpevole del reato di cui agli artt. 4, primo e secondo comma, e 38 legge 20 maggio 1970, n. 300, e gli ha irrogato la pena di 200,00 euro di ammenda, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche.
Secondo quanto ricostruito dal Tribunale, l'imputato, quale titolare di una ditta esercente l’attività di commercio al dettaglio, aveva installato impianti video all'interno dell'azienda utilizzabili per il controllo a distanza dei dipendenti, senza aver richiesto l'accordo delle rappresentanze sindacali aziendali o dell'Ispettorato del lavoro; il fatto è stato accertato il 16 maggio 2016.
2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale indicata in epigrafe K.W.Y., con atto a firma dell'avvocato Andrea Barbuto, articolando due motivi.
2.1. Con il primo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 4, primo e secondo comma, e 38 legge 20 maggio 1970, n. 300, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla configurabilità del reato ritenuto in sentenza.
Si deduce che gli impianti video installati non erano strumenti di controllo lesivi della libertà e dignità dei lavoratori, bensì sistemi difensivi a tutela del patrimonio aziendale. Si rappresenta che questi impianti erano stati adottati a seguito del verificarsi di mancanze di merce nel magazzino ed erano rivolti solo verso la cassa e le scaffalature. Si segnala che, secondo la giurisprudenza, è sanzionabile l'installazione non concordata di strumenti di controllo solo in caso di possibile controllo a distanza dell'attività lavorativa dei dipendenti.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc:. pen., avendo riguardo ancora alla configurabilità del reato ritenuto in sentenza.
Si deduce che la sentenza impugnata si pone in netto contrasto con le risultanze istruttorie, e, in particolare con le dichiarazioni della moglie dell'imputato, dalle quali si desume come gli impianti erano stati installati a tutela del patrimonio aziendale, e non per controllare l'attività dei dipendenti.[/panel]

[panel]Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato nei limiti e per le ragioni di seguito precisati.
2. La questione da esaminare è se sia configurabile il reato per la violazione della disciplina di cui all'art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. "statuto dei lavoratori"), quando l'impianto audiovisivo installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, abbia la funzione di tutelare il patrimonio aziendale.
3. Sembra utile premettere che la fattispecie in esame, originariamente prevista come reato dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970, è a tutt'oggi penalmente sanzionata.
Chiarissima, in effetti, è l'indicazione data dall'art. 171 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, nel testo vigente per effetto delle modifiche recate dall'art. 15, comma 1, lett. f), d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, il quale prevede: «La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all'articolo 38 della medesima legge». L'art. 38 legge n. 300 del 1970, a sua volta, nel testo attualmente vigente dopo le modifiche di cui all'art. 179 d.lgs. n. 196 del 2003, stabilisce: «Le violazioni degli articoli 2, 5, 6 e 15, primo comma, lettera a), sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l'ammenda da euro 154 a euro 1.549 o con l'arresto da 15 giorni ad un anno». Risulta evidente, quindi, che la violazione della disciplina di cui all'art. 4 legge n. 300 del 1970 costituisce illecito penale in forza di quanto dispone l'art. 171 d.lgs. n. 196 del 2003, nel testo vigente dopo la riforma di cui alla legge n. 101 del 2018, il quale rinvia all'art. 38 della legge n. 300 del 1970 per la individuazione delle sanzioni applicabili.
Deve aggiungersi che la configurabilità dell'illecito penale medio tempore, dopo le riforme recate all'art. 38 dall'art. 179 d.lgs. n. 196 del 2003 e dall'art. 23 d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151, ma prima della riforma di cui alla legge n. 101 del 2018, è stata ripetutamente ribadita dalla giurisprudenza (cfr., per tutte, Sez. 3, n. 4564 del 10/10/2017, dep. 2018, Malagnino, Rv. 272032-01, nonché Sez. 3, n. 45198 del 07/04/2016, Luzi, Rv. 268342-01, massimata per altro).
4. Il problema di una precisa individuazione dei limiti di configurabilità della fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 4 e 38 legge n. 300 del 1970 e 179 d.lgs. n. 196 del 2003 emerge da un esame complessivo della giurisprudenza, anche civile, di legittimità, stante la, almeno apparente, diversità di soluzioni.
4.1. La descrizione della fattispecie incriminatrice si rinviene nell'art. 4 della legge n. 300 del 1970, atteso che, come anticipato, l'art. 38 della medesima legge e l'art. 179 d.lgs. cit. sono funzionali esclusivamente alla determinazione delle sanzioni.
Il testo dell'art. 4 della legge n. 300 del 1970, è stato modificato nel tempo.
Per quanto interessa in questa sede, il testo originario dell'art. 4, nei primi due commi, prevedeva: «[Primo comma] È vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività del lavoratore. [Secondo comma] Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti».
Il testo vigente dell'art. 4, comma 1, per effetto delle riforme recate prima dall'art. 23, comma 1, d.lgs. 14 settembre 2016, n. 151, e poi dall'art. 5, comma 2, d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185, dispone: «Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di cui al primo periodo possono essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede centrale dell'Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi».
Sembra ragionevole ritenere che la successione di discipline normative non ha apportato variazioni significative alla fattispecie incriminatrice. In effetti, la condotta vietata consisteva e consiste nella installazione degli impianti audiovisivi e gli altri strumenti da ali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori 'possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro. Le modifiche legislative, piuttosto, sono relative all'individuazione dei soggetti cui compete il potere di concordare o autorizzare l'installazione degli impianti.
La precisazione appena compiuta, oltre che escludere modifiche apprezzabili a norma dell'art. 2 cod. pen., evidenzia l'utilità e la rilevanza dell'analisi, ai fini della individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie, delle interpretazioni giurisprudenziali anche in relazione al testo previgente dell'art. 4 legge n. 300 del 1970.
4.2. La specifica elaborazione in tema di configurabilità del reato relativo alla illegale installazione di impianti audiovisivi sui luoghi di lavoro ritiene penalmente rilevante anche la sola potenzialità del controllo a distanza dei dipendenti.
Costituisce, infatti, principio ripetutamente affermato quello secondo cui, ai fini della integrazione del reato di pericolo previsto dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori e 114 e 171 del d.lgs. n. 196 del 2003, che punisce l'installazione di impianti audiovisivi di controllo senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, non è necessaria la verifica della funzionalità dell'impianto né del concreto utilizzo dello stesso (cfr., in particolare Sez. 3, n. 45198 del 07/04/2016, Luzi, Rv. 268342-01, e Sez. 3, n. 4331 del 12/11/2013, dep. 2014, Pezzoli, Rv. 258690-01, la quale ha ritenuto penalmente rilevante la installazione all'interno di un supermercato di otto micro-camere a circuito chiuso di cui alcune puntate direttamente sulle casse).
A fondamento di questa conclusione, si è rilevato che la fattispecie in esame costituisce reato di pericolo, essendo diretta a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.
Appare importante evidenziare, tuttavia, che, secondo una precedente decisione, «ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori ex L. n. 300 del 1970, art. 4 è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l'attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall'ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi)» (così, in motivazione, Sez. 3, n. 8042 del 15/12/2006, Fischnaller, Rv. 236077-01, massimata per altro, la quale cita anche, quale ulteriore precedente, «Cass. 16 giugno 2002, n. 8388»).
4.3. Occorre tener conto, poi, della elaborazione giurisprudenziale in tema di utilizzabilità come prove nel processo penale dei risultati delle videoriprese effettuate sul luogo di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, in assenza di previo accordo con le rappresentanze sindacali competenti e di previa autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.
Secondo un orientamento ampiamente consolidato, sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio (cfr., in particolare: Sez. 2, n. 2890 del 16/01/2015, Boudhraa, Rv. 262288-01; Sez. 5, n. 34842 del 12/07/2011, Volpi, Rv. 250947-01; Sez. 5, n. 20722 18/03/2010, Baseggio, Rv. 247588-01).
In particolare, Sez. 5, n. 20722 del 2010, Baseggio, cit., ha formalmente enunciato il seguente principio: «Gli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori implicano l'accordo sindacale a fini di riservatezza dei lavoratori nello svolgimento dell'attività lavorativa, ma non implicano il divieto dei cd. controlli difensivi del patrimonio aziendale da azioni delittuose da chiunque provenienti. Pertanto in tal caso non si ravvisa inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191 c.p.p. di prove di reato acquisite mediante riprese filmate, ancorché sia perciò imputato un lavoratore subordinato». A fondamento di questo principio, la decisione richiama la precedente elaborazione della giurisprudenza di legittimità civile e penale (si cita, in particolare, Sez. 2, n. 8687 del 28/05/1985, Gambino, Rv. 170591-01), ed evidenzia che le norme di cui agli artt. 4 e 38 della legge n. 300 del 1970 tutelano la riservatezza del lavoratore nello svolgimento della sua attività, «anche perché la sua libertà di comportamento contribuisce al risultato che con il lavoro assicura all'azienda», per cui, «inversamente, la tutela della sua riservatezza si correla all'osservanza del proprio dovere di fedeltà», e, quindi, «la finalità di controllo a difesa del patrimonio aziendale non è da ritenersi sacrificata dalle norme dello Statuto dei lavoratori».
4.4. Ancora, la giurisprudenza civile di legittimità, anche nei suoi arresti più recenti, ritiene che esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 4 della legge n. 300 del 1970, e non richiedono l'osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale, tanto più quando disposti ex post, ossia dopo l'attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa (cfr., tra le tante: Sez. L civ., n. 13266 del 28/05/2018, Rv. 649009-01; Sez. L civ., n. 10636 del 02/05/2017, Rv. 644091-01; Sez. L civ., n. 22662 del 08/11/2016, Rv. 641604- 01).
Questo principio è affermato sul presupposto che «l'interpretazione della disposizione [l'art. 4 legge n. 300 del 1970] va ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell'esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cast.), ed il libero esercizio delle attività imprenditoriale (art. 41 Cast.), con l'ulteriore considerazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore - in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva - una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa» (così, testualmente, in motivazione, Sez. L civ., n. 10636 del 2017, cit.). Costante, inoltre, è l'osservazione che tale soluzione ermeneutica risulta coerente con i principi dettati dall'art. 8 della CEDU in base al quale nell'uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della "ragionevolezza" e della "proporzionalità" (cfr. Corte EDU, 12/01/2016, Barbulescu c. Romania secondo cui lo strumento di controllo deve essere contenuto nella portata e, dunque, proporzionato).
5. Ad avviso del Collegio, deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300, quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, o debba restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi.
5.1. Limiti ad una interpretazione eccessivamente ampia della previsione di cui all'art. 4 della legge n. 300 del 1970 risultano desumibili sulla base del dato letterale e di considerazioni sistematiche.
Per quanto concerne il primo aspetto, va rilevato che il testo della disposizione appena citata, nell'originaria come nella vigente formulazione, prevede la necessità di un preventivo accordo con le organizzazioni sindacali, o di una preventiva autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, quando derivi «anche» la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Di conseguenza, la previsione normativa non sembra riferibile ad impianti che possano controllare in via del tutto occasionale l'attività del singolo dipendente, come, ad esempio, potrebbero essere, almeno tendenzialmente, quelli puntati sulla cassaforte o sugli scaffali.
Per quanto attiene al secondo profilo, poi, appare persuasiva l'osservazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore - in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con il licenziamento - una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa (così Sez. L civ., n. 10636 del 2017, cit., ma anche Sez. 3, n. 8042 del 2006, Fischnaller, cit.).
5.2. Questi limiti all'operatività divieto di cui all'art. 4 cit., però, debbono essere intesi in senso non estensivo.
Tale precisazione risulta imposta già da quanto espressamente stabilito dall'art. 4 legge n. 300 del 1970. Innanzitutto, infatti, l'art. 4 cit., prevede l'accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o l'autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro anche quando ricorrono «esigenze [ ...] per la tutela del patrimonio aziendale». Non è senza significato, poi, che l'art. 4 cit. prefigura, per il caso di mancato accordo con le organizzazioni sindacali, la possibilità di ottenere l'autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro: in questo modo, il legislatore ha inteso tutelare le ragioni dell'impresa evitando, però, soluzioni che possano determinare una significativa interferenza sul diritto del lavoratore alla dignità e libertà nell'esercizio delle sue prestazioni sulla base di determinazioni unilaterali del datore di lavoro.
Una conferma di questa opzione ermeneutica, ancora, sembra offerta dalla giurisprudenza della Corte EDU. In effetti, i giudici di Strasburgo, pur affermando la possibilità, per gli ordinamenti giuridici nazionali, di prevedere limiti al diritto al rispetto della propria vita privata e della propria corrispondenza nell'ambito lavorativo, hanno anche sottolineato l'esigenza di contenere tali limiti nel rispetto del principio di proporzionalità, la necessità di assicurare garanzie procedurali contro possibili arbitri, e l'occorrenza di «misure protettive» di diritto penale (cfr., in particolare, Corte EDU, Grande Camera, 05/09/2017, Barbulescu c. Romania, spec. §§113-123).
6. L'interpretazione accolta in ordine all'ambito di applicazione del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 legge 20 maggio 1970, n. 300, evidenzia le lacune della motivazione della sentenza impugnata, denunciate, sia pure in termini più generali, nel ricorso.
Il Tribunale, in effetti, ha affermato la penale responsabilità del ricorrente osservando che nell'esercizio commerciale del medesimo era installato un sistema di videosorveglianza dei lavoratori non concordato con i sindacati, né altrimenti autorizzato, ma anche riportando, senza alcun esame critico, le dichiarazioni testimoniali della moglie dell'imputato, secondo cui l'impianto era stato posizionato a seguito del rilievo di mancanze di merci, ed era rivolto solo verso la cassa e le scaffalature.
In questo modo, la decisione oggetto di ricorso non ha chiarito se l'installazione del sistema di videosorveglianza rilevato fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, né se l'utilizzo del precisato impianto comportasse un controllo non occasionale sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, o, comunque, dovesse restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.
7. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata con per nuovo giudizio.
Il giudice del rinvio accerterà, compiendo tutti gli accertamenti ritenuti necessari, se l'installazione del sistema di videosorveglianza riscontrato dagli Ispettori del Lavoro fosse strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, e, in caso di risposta affermativa, se l'utilizzo dell'impianto avesse comportato un controllo non occasionale sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, oppure dovesse restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite di questi ultimi.[/panel]

[panel]P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Viterbo in diversa persona fisica.
Così deciso il 14/12/2020[/panel]

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Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. n. 30666 | 25 Novembre 2019

Sentenze cassazione civile

Cassazione Civile Sez. Lav. del 25 novembre 2019 n. 30666

Scoppio del compressore privo del dispositivo di sicurezza

Civile Sent. Sez. L Num. 30666 Anno 2019
Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: BOGHETICH ELENA
Data pubblicazione: 25/11/2019

[panel]Ritenuto

1. Con sentenza n. 538 depositata il 9.12.2014 la Corte di appello di Genova - confermando la pronuncia, non definitiva, n. 277 del 2013 del Tribunale di La Spezia e in parziale riforma della pronuncia, definitiva, n. 380 del 2013 del medesimo Tribunale - ha accolto la domanda proposta da P.Z. per il risarcimento del danno (consistente in otalgia da trauma e sindrome da stress a seguito di scoppio provocato dal distacco della testata di un compressore in uso per travasare propano da un serbatoio ad un camion cisterna) conseguente all'infortunio subito in data 8.8.2007 e ha condannato, in solido tra loro, la società datrice di lavoro Bpgas s.r.l. e la Axa assicurazioni s.p.a. a risarcire i 3/4 del danno (detratto quanto corrisposto dall'INAIL), nonché ha condannato la Axa assicurazioni s.p.a. a rimborsare le spese affrontate da G.A. (amministratore della società Bpgas) nel procedimento penale instaurato nei suol confronti per il decesso, nel corso del medesimo infortunio, del dipendente M.C., respingendo la medesima domanda avanzata dalla società Bpgas; infine, ha respinto le domande formulate da Axa assicurazioni nel confronti della società Assicurazioni V. di Graziano Enrico V. & C. s.a.s. e di Graziano V. in proprio, agente stipulante la polizza assicurativa per conto della Axa assicurazioni, e della chiamata CNA insurance Limited Company nonché ha disposto l'estromissione dal giudizio di Ace European Group.
2. La Corte distrettuale, per quel che interessa, ha accertato la responsabilità, ex art. 2087 cod.civ., della società datrice di lavoro rilevando la mancata assunzione della protezione consistente nell'installazione di un c.d. barilotto trappola (un tipo di compressore, esistente sul mercato già dalla fine degli anni ottanta, che in caso di pericolo va in blocco anziché esplodere), ritenendo addebitabile, nella misura di 1/4, l'infortunio allo stesso P.Z., che aveva Imprudentemente proceduto a svuotare il compressore del liquido e, per svuotare il tubo della fase gas che portava al compressore, aveva avvicinato un'autocisterna al punto di travaso mettendo in moto il compressore; la Corte, a seguito di interpretazione - nel suo complesso - di tutte le clausole della polizza stipulata tra la società Bpgas e la Axa assicurazioni e ritenuto versato il premio pattuito per le garanzie prestate, ha, inoltre, ritenuto estesa la garanzia alla responsabilità (oltre che verso i terzi altresì) nel confronti degli operai del datore di lavoro (considerata la clausola I) delle condizioni particolari della polizza che prevedeva espressamente l'estensione della garanzia alla responsabilità nel confronti dei propri operai), con conseguente condanna della società assicuratrice per i danni conseguenti all'infortunio, anche con riguardo alla responsabilità invocata dallo P.Z. nei confronti dell'amministratore della società, G.A..
3. Avverso la detta sentenza la società Axa assicurazioni s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque, illustrati da memoria. La società Bpgas ,s.r.l. e G.A. resistono con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale fondato su un unico motivo, illustrato da memoria. Graziano Enrico V. nonché le società Assicurazioni V. s.a.s., CNA insurance Limited Company, Ace European Group resistono con distinti controricorsi. La società Assicurazioni V. s.a.s. ha depositato memoria. P.Z. è rimasto intimato.[/panel]

[panel]Considerato

1. Con i primi due motivi di ricorso principale si denunzia violazione degli artt. 2043 cod.civ. e 40-41 cod.pen nonché degli artt. 1227 e 2087 cod.civ. e 5, lett. f), del d.lgs. n. 626 del 1994 e vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente attribuito portata assorbente alla ritenuta "obsolescenza" del compressore, trascurando alcuni dati fattuali (segnatamente l'abnorme pressione raggiunta all'interno del compressore) che sarebbero stati tali da comportare lo scoppio anche in presenza del c.d. barilotto trappola, così come riferito dai consulenti di parte nell'ambito del procedimento penale nonché sottovalutando la condotta colposa dello P.Z. titolare di una posizione di garanzia del tutto assimilabile a quella datoriale in quanto Responsabile della sicurezza dello stabilimento.
2. Con il terzo e quarto motivo del ricorso principale si denunzia violazione degli artt. 1917, 1363,1882 cod.civ. nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente interpretato la polizza assicurativa stipulata con la società Bpgas che deve ritenersi circoscritta - anche solo visivamente dalla disamina del frontespizio (ove il premio indicato si riferisce all'unica garanzia che risulta "compilata") - alla responsabilità civile verso terzi, con esclusione dell'estensione della garanzia nei confronti degli operai dipendenti della società assicurata per la quale è indicato "zero" con riguardo al massimale assicurato. inoltre, il mandato conferito da Axa assicurazioni all'agente V. comprendeva solamente la garanzia per responsabilità civile verso terzi (oggetto di tutte le polizze già stipulate negli anni precedenti con Bpgas), come si evince dalla richiesta dello stesso V. avanzata alla società assicuratrice per la stipula (rectius: riforma) della polizza, (da ritenersi pattuita esclusivamente con riguardo alla responsabilità civile verso terzi) e nessun premio poteva ritenersi riscosso.
3. Con il quinto motivo del ricorso principale si deduce violazione degli artt. 1362 e ss. cod.civ. nonché vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente ritenuto che la responsabilità personale dell'amministratore G.A. era coperta dalla previsione di cui alla "garanzia complementare A 14" (disposizione integralmente riprodotta), non potendo, per converso, ritenersi il dipendente infortunato "terzo" rispetto all'amministratore della società. inoltre, la Corte ha erroneamente accollato alla società assicuratrice le spese (legali e peritali) affrontate dall'amministratore nel procedimento penale a suo carico per il decesso del dipendente C., erroneamente interpretando l'art. 15 delle Condizioni generali di contratto (disposizione integralmente riprodotta), operando la garanzia accessoria solamente ove il sinistro sia riconducibile alle garanzie di polizza (e dovendosi escludere, come già rilevato nel motivi precedenti, la garanzia nel confronti degli operai dell'assicurata) e, comunque, non essendo stati designati dalla società assicuratrice (bensì unicamente dall'G.A.) i legali e i tecnici intervenuti nel procedimento penale.
4. Con il ricorso incidentale la società Bpgas s.r.l. deduce omesso esame di un fatto decisivo nonché nullità della sentenza (ex art. 360, primo comma, nn. 4 e 5, cod.proc.civ.) avendo, la Corte di appello, omesso di provvedere sulla richiesta di ammissione di CTU sull'Impianto Bpgas e sulla rilevanza di un eventuale barilotto- trappola, Istanza respinta dal Tribunale e riproposta in appello, ed a fronte del contrasto di opinioni su detto aspetto insorto nel corso del procedimento penale in base al quale poteva ritenersi che il barilotto non avrebbe potuto evitare lo scoppio del compressore non avendo la robustezza necessaria a fronte dell'onda d'urto proveniente dalla fase liquida del gas e dovendosi attribuire efficacia deterministica determinante all'apertura delle "valvole in radice" da parte dello P.Z..
5. I primi due motivi del ricorso principale nonché l'unico motivo del ricorso incidentale, che attengono tutti all'obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro e all'interruzione del nesso di causalità per condotta Imprevedibile del lavoratore, sono inammissibili. 
Deve, in primo luogo, rimarcarsi che in tema di ricorso per cessazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394).
Nella specie è evidente che il ricorrente lamenta la erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta, e dunque, in realtà, non denuncia un'erronea ricognizione della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all'art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) bensì un vizio-motivo, da valutare alla stregua del novellato art. 360, primo comma n. 5 cod.proc.civ., che - nella versione ratione temporis applicabile - lo circoscrive all'omesso esame di un fatto storico decisivo (cfr. sul punto Cass. Sez. U. n. 19881 del 2014), riducendo al "minimo costituzionale" il sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014).
Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a giustificazione dell'apprezzamento fattuale risultano manifestamente illogici o contraddittori.
La sentenza impugnata ha ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato - sulla base degli elementi istruttori raccolti e conformemente a quanto statuito dal Tribunale, sia in primo grado che in sede penale - che: "E' accaduto che l'8 agosto 2007 sia scoppiato il compressore, che l'attore [P.Z.] e il collega M.C. stavano utilizzando per travasare propano da un serbatoio ad un camion cisterna, e che dallo scoppio M.C. sia deceduto e P.Z. abbia riportato un'otalgia da scoppio e una sindrome post traumatica da stress indennizzate dall'INAIL. Ciò in quanto nell'ultima operazione di carico di una autocisterna con gpl antecedente allo scoppio, si superò la soglia massima di riempimento di liquido all'80% caricandola al punto tale che il liquido stesso penetrò nel tubo deputato al trasferimento della parte gassosa fino a giungere al compressore, che appunto così, messo in moto, scoppiò." La Corte di appello ha precisato: "Va messo in luce, come puntualmente fatto dal giudice penale, che lo scoppio in questione è avvenuto dopo che il compressore fu messo in movimento. Ciò, per un verso, toglie valore al rilievo dell'appellante principale [Axa assicurazioni] per il quale già la pressione del gpl liquido presente nell'autocisterna era tale, anche per il caldo del periodo, da provocare lo scoppio e che pertanto il mancato utilizzo del barilotto trappola non abbia avuto incidenza causale sul medesimo." in ordine al concorso causale dello P.Z., la Corte di appello ha sottolineato che "Per un altro verso, il ruolo di responsabile della sicurezza di P.Z. non ha avuto rilievo più di quello dato dal Tribunale nell'episodio: se il datore di lavoro avesse usato un compressore dotato di dispositivo di sicurezza da oltre trent'anni presente sul mercato lo scoppio non ci sarebbe stato nonostante il riempimento eccessivo e l'imprudenza di P.Z. e M.C.. "
Le censure fondate sull'archetipo dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ. risultano altresì inammissibili in quanto incorrono nel vizio della pronuncia "doppia conforme". invero, l'art. 348 ter, comma 5, cod.proc.civ. prescrive che la disposizione di cui al comma 4 - ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all'art. 360, comma 1, c.p.c. - si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348 bis, comma 2, lett. a), cod.proc.civ. anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, con la conseguenza che il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme.
Nel caso di specie, per l'appunto, la Corte ha confermato la statuizione del Tribunale che aveva, con sentenza non definitiva (n. 277 del 2013) condannato la società Bpgas a risarcire i 3/4 del danno subito dallo P.Z. (detratto quanto corrisposto dall'Inail) ritenendo il sinistro addebitabile, per la quota indicata, al datore di lavoro per l'assorbente ragione di non avere questi installato compressori, esistenti sul mercato dalla fine degli anni ottanta, che in caso di pericolo vanno in blocco (tramite il c.d. barilotto trappola) anziché esplodere e per 1/4 attribuibile allo stesso P.Z. che, accortosi insieme a M.C. e ad altro operaio, della riempimento eccessivo dell'autocisterna, procedeva con loro imprudentemente a svuotare il compressore del liquido e, per svuotare il tubo della fase gas che portava al compressore, avvicinava l'autocisterna al punto di travaso e metteva in moto il compressore che così scoppiava.
Quando la ricostruzione delle emergenze probatorie effettuata dal Tribunale sia stata confermata dalla Corte d'appello, com'è nel caso, il ricorrente in cassazione, per evitare l'inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell'appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 5528 del 2014), ciò che nel caso non è stato fatto né dal ricorrente principale, né dal ricorrente incidentale.
6. Non appare fondata la censura, sollevata dalla società Bpgas nell'ambito del ricorso incidentale, della mancata valutazione, da parte della Corte di appello, dell'istanza di ammissione della consulenza tecnica d'ufficio sulla inutilità dell'installazione del sistema protettivo del c.d. barilotto trappola, posto che la ricostruzione pacifica dei fatti (in specie, le modalità temporali dello scoppio, "avvenuto dopo che il compressore fu messo in movimento") ha determinato un rigetto implicito dell'istanza, che si coglie agevolmente nella parte di motivazione della sentenza impugnata ove si sottolinea che la tesi della società assicuratrice Axa (che refluiva nel quesito da sottoporre all'eventuale consulente tecnico d'ufficio) secondo cui la sola pressione del gpl liquido presente nell'autocisterna era tale, anche per il caldo del periodo, da provocare lo scoppio (con conseguente irrilevanza causale della mancata installazione del barilotto trappola) non aveva valore proprio in considerazione della sequenza temporale degli eventi (pag. 13 della sentenza impugnata).
7. Il terzo ed il quarto motivo del ricorso principale sono inammissibili.
L’interpretazione delle disposizioni di un contratto individuale costituisce accertamento di fatto ed è riservata al giudice di merito; può essere sindacata in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale oppure per vizio di motivazione (Cass. nn. 2512 del 2013, Cass. n. 16376 del 2006); in tal caso, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente il punto ed il modo in cui l'interpretazione si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione relativa risulti obiettivamente carente.
Va sottolineato che la sentenza in esame (pubblicata dopo il 11.9.2012) ricade sotto la vigenza della novella legislativa concernente l'art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. (d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134). L'intervento di modifica, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053/2014), comporta una ulteriore sensibile restrizione dell'ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto, che va circoscritto al "minimo costituzionale".
Ebbene, i motivi risultano carenti quanto ai requisiti di completezza e di specificità, avendo, il ricorrente, trascurato di trascrivere (quantomeno per estratto) le clausole contrattuali oggetto di interpretazione e di fornire - al contempo - alla Corte elementi sicuri per consentirne l'individuazione e il reperimento negli atti processuali, in tal modo violando il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio dei suddetti principi dall'art. 366 cod.proc.civ., primo comma, n. 6, e dall'art. 369 c.p.c., secondo comma, n. 4 (Cass. n. 3224 del 2014; Cass. SU n. 5698 del 2012; Cass. SU n. 22726 del 2011).
Il ricorrente, inoltre, si è limitato a contrapporre la propria ricostruzione ermeneutica della polizza assicurativa senza indicare gli errori esegetici asseritamente compiuti dal giudice di merito che, applicando correttamente il criterio di interpretazione delle clausole le une per mezzo delle altre (art. 1363 cod.civ.), ha ritenuto sussistenti tutti gli elementi costitutivi del contratto di assicurazione (ai sensi dell'art. 1882 cod.civ.), dovendo individuarsi il massimale della garanzia per la responsabilità civile nei confronti degli operai pari a quello previsto per la responsabilità verso terzi e dovendosi ritenere l'importo previsto del "totale premio imponibile di cui al frontespizio, non scritto né nella riga riservata alla rct, né a quello reo" individuato sia con riguardo alla garanzia per la responsabilità verso terzi sia con riguardo all'estensione della garanzia per responsabilità nei confronti degli operai.
In ordine alla censura concernente l'inefficacia dell'estensione della polizza per responsabilità dell'agente (che non avrebbe trasmesso la clausola di cui alle condizioni particolari alla preponente né avrebbe ricevuto autorizzazione alla stipulazione) trova applicazione il principio secondo cui, qualora la pronuncia impugnata sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, il rigetto delle doglianze relative ad una di tali ragioni rende inammissibile, per difetto di interesse, l'esame relativo alle altre, pure se tutte tempestivamente sollevate, in quanto il ricorrente non ha più ragione di avanzare censure che investono una ulteriore ratio decidendi, giacché, ancorché esse fossero fondate, non potrebbero produrre in nessun caso l'annullamento della decisione anzidetta (cfr, ex plurimis, Cass. n. 9752 del 2017, Cass. n. 12355 del 2010; Cass. n. 13956 del 2005). Nel caso di specie, la Corte distrettuale ha rilevato che i principi dell'apparenza e dell'affidamento incolpevole consentivano di ritenere legittimo il convincimento da parte della Bpgas che l'agente fosse investito dei poteri di rappresentanza della società proponente e, in ogni caso, doveva ritenersi che la società assicuratrice avesse ratificato l'operato dell'agente incassando i premi per tutti i rischi assicurati (come ritenuto sede di interpretazione della polizza assicurativa). Il rigetto della doglianza relativa a questa seconda ratio decidendi (come precedentemente illustrato) rende ultronea la disamina della censura relativa alla prima ratio decidendi.
8. Il quinto motivo del ricorso principale è in parte infondato (quanto alla prima censura) e in parte inammissibile (quanto alla seconda censura).
In ordine alla prima censura relativa alla garanzia assicurativa nei confronti dell'amministratore della Bpgas, e tralasciando profili di inammissibilità per carenza di specificità riconnessi alla mancata trascrizione di tutte le clausole necessarie per l'interpretazione della "garanzia complementare A 14" (nella specie la definizione di "prestatori di lavoro" contenuta nelle condizioni generali di contratto ed espressamente richiamata dal giudice di merito), la censura non è fondata avendo, la Corte distrettuale, correttamente interpretato la clausola A 14 che estende la copertura assicurativa alla responsabilità personale dei prestatori di lavoro della società Bpgas, prestatori di lavoro "coperti" dalla garanzia assicurativa tra cui va incluso altresì l'amministratore della società.
Questa Corte ha più volte affermato che degli atti illeciti posti in essere dall'amministratore di una società di capitali nell’esercizio della propria attività gestoria risponde la persona giuridica in virtù del rapporto organico e del disposto dell’art. 2049 cod.civ. (cfr. ex plurìmis, Cass. n. 12951 del 1992, Cass. 24326 del 2007, Cass. n. 25510 del 2010).
Deve, pertanto, ritenersi correttamente incluso - sia alla luce del tenore lessicale della clausola sia in ottemperanza alla consolidata giurisprudenza di questa Corte - l'amministratore nel novero dei "prestatori di lavoro".
La clausola contrattuale prevedeva, invero, alla lettera b), che la garanzia valeva : "Qualora operante l'unità tecnica 02 - RCO e nei limiti del massimale RCO, i danni derivanti da morte o invalidità permanente non inferiore al 6% cagionati agli altri prestatori di lavoro calcolata sulla base delle tabelle INAIL..." includendo - come già correttamente statuito dalla Corte distrettuale - la responsabilità del prestatori di lavoro per danni procurati ad altri colleghi di lavoro.
La censura relativa al rimborso delle spese legali affrontate dall'G.A. nell'ambito del processo penale è inammissibile per carenza dei requisiti di completezza e specificità. invero, il ricorrente si limita a ribadire che la clausola contrattuale concernente la garanzia accessoria del rimborso delle spese legali e peritali opera esclusivamente con riguardo a difensori e tecnici designati dalla stessa compagnia assicuratrice a fronte della coerente ricostruzione esegetica effettuata dalla Corte distrettuale che (tenuta, nell'interpretazione del contratto di assicurazione, a ricorrere agli usuali canoni esegetici dettati dagli artt. 1362 e ss. cod.civ. e, in particolare, a quello dettato dall'art. 1370 cod.civ., che impone di interpretare una clausola ambigua contro il predisponente, cfr. da ultimo Cass. n. 668 del 2016) ha rilevato che "la clausola per la quale la società non risponde per i legali e tecnici da essa non designati va quindi interpretata nel senso che essa opera (nel senso di non rispondere) se non sia stata notificata o abbia rifiutato giustificatamente", perché nel caso di adesione alla prospettazione letterale avanzata dalla società assicuratrice qualsiasi immotivato rifiuto di designazione di legali a tecnici da parte dell'obbligato-compagnia assicuratrice "metterebbe nel nulla l'obbligo".
9. In conclusione, il ricorso principale e il ricorso incidentale debbono essere rigettati. Le spese di lite del presente giudizio seguono il criterio della soccombenza dettato dall'art. 91 cod.proc.civ. e sono liquidate come da dispositivo.
12. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato - se dovuto - previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013).[/panel]

[panel]P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale; compensa le spese del presente giudizio di legittimità fra Axa Assicurazioni s.p.a. e Bpgas s.r.l. e G.A.; condanna Axa Assicurazioni s.p.a. al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti di Assicurazioni V. di G.E. V. s.a.s. e di Graziano Enrico V. liquidate in euro 200,00 per esborsi nonché in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge a favore di ciascun controricorrente; compensa fra le altre parti (CNA insurance Limited Company, Ace European Group) le spese del presente giudizio.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato - se dovuto - pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 settembre 2019.[/panel]

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Documentazione interventi VVF di maggiore entità dal 1951

Interventi VVF 1951 2013

Documentazione interventi VVF di maggiore entità 1951/2013

ID 9157 | 28.09.2019

Documentazione degli eventi incidentali di maggiore entità che hanno colpito il Paese negli ultimi cinquant'anni.

Eventi incidentali di maggiore entità che hanno colpito il paese negli ultimi 50 anni, dall'alluvione del Polesine al terremoto del Belice, dall'incidente di Seveso all'alluvione del Piemonte ed altri eventi passati.

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[box-note]1951 Alluvione del Polesine

Il 14 novembre il Po straripa invadendo la regione del Polesine; in pochi istanti otto miliardi di metri cubi d'acqua invadono le campagne.
Il primo bilancio del disastro è drammatico: 107.000 ettari su 157.000 coltivabili sono allagati, i raccolti distrutti.
Il Paese si mobilita per la prima grande campagna di solidarietà del dopoguerra

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[box-note] 1956 - Maltempo in Italia Meridionale

L'Italia Centro Meridionale resta completamente isolata a causa del maltempo e delle eccezionali nevicate.

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[box-note] 1963 - Disastro del Vajont

Il 9 ottobre 1963 un'enorme frana precipita dal monte Toc nelle acque della diga del Vajont.

Un'ondata alta 200 metri travolge immediatamente i paesi vicini: Longarone, Rivalta, Pirago, Villanova, Faè, Erto, Casso, Castellavazzo sono ridotti a cumuli di macerie e di fango.

Muoiono 2500 persone, migliaia sono i senzatetto.

I Vigili del Fuoco lavorano ininterrottamente per settantadue giorni, salvando la vita di oltre settanta persone e recuperando i corpi di 1243 vittime.

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[box-note] 1966 - Alluvione di Firenze

La piena del fiume Arno travolge la città di Firenze.

Il centro cittadino resta per giorni semi-sommerso dall'acqua e da migliaia di tonnellate di detriti e fango che danneggiano, soprattutto, il patrimonio artistico.

Nella sola Firenze, tra il 4 ed il 5 novembre, vengono effettuati oltre 9.000 salvataggi.

Il dispositivo del C.N.VV.F. consente di portare soccorso a circa 34.000 persone.

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B. Video [/box-note]

[box-note] 1968 - Terremoto nel Belice

Il 15 gennaio si registra una forte scossa di terremoto nella Sicilia occidentale che provoca la morte di 231 persone.

Nei soccorsi si alternano sul posto circa 7.000 vigili.

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B. Video 1 
C. Video 2 [/box-note]

[box-note] 1974 - Esplosione dell'Italicus

La notte del 4 agosto 1974 una bomba esplode nella vettura numero 5 dell'espresso Roma-Brennero.

I morti sono 12 e i feriti circa 50, ma una strage spaventosa è stata evitata per questione di secondi: se la bomba fosse esplosa nella galleria che porta a San Benedetto Val di Sambro i morti sarebbero stati centinaia.

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[box-note] 1976 - Incidente a Seveso

Il 10 luglio una nuvola di diossina fuoriesce da uno stabilimento chimico contaminando il territorio circostante.

Una delle più grandi catastrofi chimiche comincia in una fabbrica di profumi e disinfettanti.

All'interno di un reattore della fabbrica veniva prodotto il triclorofenolo (Tcf), materia prima per la produzione di cosmetici, disinfettanti ospedalieri e diserbanti.

La temperatura doveva essere mantenuta sotto i 156 gradi. A temperature superiori, infatti, comincia la formazione di diossina (Tcdd), un potentissimo veleno. Più alta è la temperatura, più diossina si forma.

Il 10 luglio, invece, nel reattore, la temperatura sale improvvisamente fino a superare i 300 gradi. La valvola di sicurezza si rompe e fuoriesce una nube di vapori che il vento trasporta per qualche chilometro in direzione sud-est, sopra le città di Meda e Cesano Maderno.

A. Download Articolo [/box-note]

[box-note] 1976 - Terremoto in Friuli

La sera del 6 maggio la terra trema in Friuli, a nord di Udine.

La scossa investe 77 comuni con circa 60.000 abitanti.

Muoiono 965 persone, 45.000 sono i senzatetto.

Migliaia di Vigili del Fuoco, con oltre 600 mezzi, intervengono immediatamente con le componenti dello Stato presenti sul territorio colpito (Esercito, forze dell'ordine, volontari).

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C. Video [/box-note]

[box-note] 1980 - Esplosione a Bologna

Il 2 agosto del 1980 una bomba posta nella sala d'aspetto della stazione centrale di Bologna provocò un'esplosione. La deflagrazione, di enorme potenza, fece crollare un tratto del fabbricato che ospitava i locali del ristorante e delle sale di attesa di prima e seconda classe causando la morte di 85 persone e il ferimento di altre 200.

Fu colpito anche il treno interregionale 13544 Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. La forza d'urto mandò in frantumi i vetri di quasi tutti i palazzi che circondano la stazione.

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[box-note] 1980 - Terremoto in Irpinia

Il 23 novembre un fortissimo terremoto investe un'area di 17.000 Kmq. Le cifre della tragedia sono pesantissime: 2.914 i corpi recuperati, 10.000 i feriti, 280.000 i senzatetto.

I Vigili del Fuoco intervengono sul territorio con 4.300 unità e oltre 1.000 mezzi.

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[box-note] 1985 - Crollo bacini decantazione Val di Stava

Il 19 luglio 1985, alle 12.22, il crollo delle discariche della miniera di Prestavel provoca una immensa frana che sconvolge la valle del rio Stava, 180 mila metri cubi di fango ed acqua percorrono la valle alla velocità di circa 90 chilometri all'ora, uccidendo 268 fra uomini, donne e bambini e provocando danni per decine di miliardi.

La tragedia della val di Stava è la più grave catastrofe industriale degli ultimi anni in Italia, seconda per distruzione e numero di vittime solo alla catastrofe del Vajont.

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[box-note] 1987 - Frana in Valtellina

17 luglio 1987, 305 i millimetri di pioggia in un solo giorno: un quarto di tutta l'acqua che solitamente cade nella valle in un anno intero.

28 luglio 1987, frana in Val Pola (saranno colpiti i paesi: Morignone, S. Antonio, Aquilone, Foliano, Castellaccio, S. Martino, Plegne, ecc.).

Attorno alle 7.30 la frana si materializza: a cedere non è un milione di metri cubi, né cinque, né dieci: sono quaranta milioni di metri cubi.

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[box-note] 1991 - Incendio della petroliera Haven

Giovedì 11 aprile sulla petroliera Haven, ancorata nel porto di Genova, scoppia un incendio che causa un disastro ecologico.

500 chilometri quadrati coperti dal petrolio nel golfo Ligure.

La petroliera conteneva, al momento dello scoppio, 143.000 tonnellate di greggio nella sua stiva, capace di ben 220.000 a pieno carico.

Circa 15.000 tonnellate di petrolio galleggiano nel mar Ligure, 27 microgrammi di anidride solforosa, la concentrazione massima per mq. registrata in provincia di Genova.

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[box-note] 1994 - Alluvione in Piemonte

5 novembre 1994, ore 18.00. Da vari giorni piove incessantemente su tutto il Nord Italia. I principali corsi d'acqua, investiti dalla crescente pressione, cominciano ad ingrossarsi sempre più, iniziando a tracimare dai loro argini, allagando le campagne circostanti.

Tra le regioni maggiormente interessate figurerà il Piemonte, particolarmente colpito nelle provincie di Cuneo, Asti ed Alessandria. É proprio in queste zone, infatti, che il Tanaro, il Covetta ed il Bovina fuoriescono contemporaneamente dai loro letti, trascinando nella loro corsa verso valle una quantità enorme di detriti. Sarà a causa della potenza delle loro acque, cresciuta a dismisura col passare del tempo e dei chilometri percorsi, che questi corsi si trasformeranno in fiumi tumultuosi, capaci di travolgere tutto con la veemenza delle proprie acque. Nell'inondazione, perderanno la loro vita più di cento persone, mentre il numero dei senzatetto oltrepasserà i cinquemila. L'economia stessa della zona risulterà annientata: innumerevoli abitazioni vengono infatti distrutte dall'alluvione, migliaia di capi di bestiame vanno perduti, annegati nel fango; le scorte di cereali e mangimi svaniscono, i terreni agricoli, invasi dalla piena, divengono.

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[box-note] 1996 - Alluvione in Versilia

19 giugno 1996 alle 6 del mattino, sul crinale tra l'Alta Versilia e la Garfagnana sulle montagne del Corchia e della Pania, del Forato e del Procinto, e nelle strette gole che vi si insinuano, il cielo cominciò a tuonare mentre l'acqua venne giù a scrosci sempre più fitti, si trattò di un acquazzone dovuto all'impatto di aria calda venuta dal mare con quella, assai più fredda, che sovrastava le cime delle Apuane, il classico temporale estivo, sfuggito alle previsioni, tanto ridotto era il perimetro su cui insistette: le cime e le ripide pendici delle montagne, sul versante garfagnino, sopra a Fornovolasco, e su quello della valle senza nome che finisce a Cardoso, nei comuni di Stazzema e di Serravezza. Un perimetro di due chilometri per dieci, a esagerare, è piovuto per dodici ore di seguito, alle ore 13.50 l'alluvione raggiunse la massima intensità, alla fine si calcolò che erano piovuti 482 millilitri, mezza tonnellata d'acqua per ogni metro quadro.

Su Cardoso, portati dalle acque, piombarono 2.200.000 metri cubi di detriti. Fango, pietre e grandi massi, interi castagneti, a ondate successive. L'acqua piovana aveva gonfiato a dismisura i rivi che scendono dalle montagne fino a diventare cascate il cui urto aveva sbranato le pendici dei monti, dalla Pania al Forato, precipitandole dabbasso, nella ridotta conca dove confluiscono i torrenti Capriola, Farneto e Vezza, tra le case di Cardoso. Disintegrato il paese, la valanga d'acqua e di fango era straripata lungo tutta la valle, fino a Serravezza e poi nella piana versiliese e fino al mare. La valanga aveva viaggiato alla velocità di dieci metri al secondo: così aveva travolto tutto ciò che si trovava sopra l'alveo del Vezza, i ponti e le fiancate della strada, le massicciate, le case fino a tre piani, lo storico Albergo Milani al Ponte Stazzemese, i magazzini e le segherie, per inondare poi la pianura fino a sfondare la via Aurelia e scardinare il terrapieno della ferrovia Pisa-Genova. Fino alle passeggiate lungomare e aveva portato con sé la gente.

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[box-note] 1996 - Crollo a Secondigliano

Alle ore 16,30 del 23 gennaio si verifica il crollo di una palazzina di tre piani, già sotto ordinanza di sgombero, contemporaneamente al crollo si innesca un violento incendio causato dallo scoppio del gas metano fuoriuscito dalla sottostante tubazione, che provoca un'ampia voragine sull'assetto stradale di circa venti metri di profondità, danneggiando i cavi elettrici, quelli telefonici e facendo precipitare le auto in sosta e quelle in transito.            

Nella zona erano in corso dei lavori per la costruzione di una galleria per collegare Arzano e Miano dove, in quel momento avveniva una esplosione all'interno della galleria dove si trovavano otto operai. I Vigili del Fuoco hanno lavorato ininterrottamente per giorni per recuperare i corpi delle vittime (11), per la messa in sicurezza dei manufatti limitrofi e per le numerose verifiche di stabilità richieste.

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[box-note] 1996 - Voragine a Milano

In Milano alle ore 14,40 del 12 dicembre 1996 si forma una voragine di dimensioni considerevoli, 35 metri di profondità, sotto la bottega di un fabbro, causata probabilmente da infiltrazioni d'acqua.               

Il proprietario ed il figlio vengono inghiottiti con parte della loro officina ed in seguito ritrovati in fondo alla voragine; prima il figlio ed il 31 dicembre alle ore 18 si chiudevano le operazioni con il recupero del genitore.

I Vigili del Fuoco hanno operato per 20 lunghissimi giorni, realizzando ed istallando il sistema per operare all'interno della profonda voragine.

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[box-note] 1996 - Incendio del teatro La Fenice a Venezia

Il 29 gennaio 1996 un incendio ha distrutto il teatro La Fenice a Venezia.

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[box-note] 1997 - Salvataggio della Sacra Sindone a Torino

Venerdì 11 aprile 1997, divampa un incendio all'interno della Cappella del Guarini, nel Duomo di Torino. Le fiamme raggiungono, rapidamente, il vicino Palazzo Reale mettendo in pericolo la teca contenente la Sacra Sindone.

Quando tutto sembrava perduto, un Vigile del Fuoco si è lanciato tra le fiamme con una grossa mazza di ferro, rompendo a furia di colpi la teca, antiproiettile, che proteggeva la reliquia e portando al sicuro il Sudario di Cristo.

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[box-note] 1997 - Terremoto in Umbria e Marche

Nella notte del 26 settembre 1997, una prima scossa dell'ottavo grado della scala Mercalli, poi alle 11,42 una seconda, mentre frati e tecnici stavano controllando eventuali danni alla volta nella Basilica di San Francesco ad Assisi, causarono ingenti danni al patrimonio architettonico.

Il crollo della volta nella Basilica ha provocato quattro morti. I paesi più colpiti saranno: Assisi, Foligno, Colfiorito, Serravalle del Chienti, e tanti altri piccoli centri.          

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[box-note] 1998 - Dissesto idrogeologico in Campania

Nei giorni 4, 5 e 6 maggio del 1998, una massa di fango e detriti si è staccata dalla montagna e dalla collina sovrastanti i paesi di Quindici (in Irpinia), Sarno, Siano e Braciliano (Salerno).

In alcuni casi, come nella frazione di Episcopio (Sarno), la furia del fiume di fango ha distrutto tutto quello che c'era.

La frana ha provocato la morte di 159 persone.

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[box-note] 1999 - Crollo a Foggia

Il 10 novembre a Foggia un palazzo di sei piani crolla seppellendo circa novanta persone. Dopo quattro giorni di incessante lavoro Vigili del Fuoco, Forze dell'ordine e volontari estraggono dalle macerie 62 vittime e una ventina di feriti.

In piena notte il palazzo comincia a manifestare sinistri scricchioli, sintomi precursori inequivocabili di un imminente cedimento strutturale. L'amministratore dello stabile, per fortuna è sveglio. Intuisce il pericolo, esce in strada e pigia freneticamente la pulsantiera dei citofoni per dare l'allarme.

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[box-note] 2000 - Alluvione in Piemonte

Già a partire dal giorno 13, il Centro Nazionale Climatologia e Meteorologia Aeronautica (C.N.C.M.A.), ha emesso le previsioni meteo "...molto nuvoloso o coperto, con piogge diffuse e locali rovesci o temporali; i fenomeni potranno risultare localmente forti sul settore ovest, in particolare sulle zone alpine, prealpine e sulla riviera di levante" ed infatti, in serata e per tutta la giornata del 14 ottobre, intense precipitazioni hanno interessato le regioni Piemonte e Valle d'Aosta ed in particolare le zone montane.

In poche ore le abbondanti piogge hanno provocato l'ingrossamento di numerosi fiumi e torrenti che sono esondati provocando l'isolamento di diversi centri abitati; la pioggia è stata anche causa di diverse frane e crolli che hanno provocato non poche difficoltà alla viabilità stradale.

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[box-note] 2000 - Alluvione a Soverato

L'ondata assassina è arrivata poco prima delle 5. Ed ha sorpreso nel sonno tutto il campeggio, dove insieme ai soliti turisti c'erano tanti disabili organizzati in una specie di colonia. È stata una strage. Il fango ha travolto tutti e tutto, lasciando pochissime vie di scampo: i tetti dei bungalow in muratura ed i salici centenari. Chi non ha avuto la forza, la prontezza ed il coraggio di saltare sui muri e sugli alberi non ha trovato scampo, a meno di un miracolo.

Il teatro della tragedia è il camping Le Giare, alle porte dei Soverato, una trentina di chilometri da Catanzaro lungo la jonica.

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[box-note] 2000 - Sisma ai Monti Tiburtini

Alle ore 11.35 dell'11 marzo 2000, una forte scossa di terremoto è stata avvertita dalle popolazioni residente nella zona dei monti Tiburtini, in un territorio compreso tra le provincie di Roma, L'Aquila, Frosinone e Rieti.

Il movimento tellurico, registrato dai sismografi dell'Istituto Nazionale di Geofisica con magnitudo 4.1, è stato distintamente avvertito in molte zone delle provincie sopracitate provocando, oltre a comprensibili momenti di panico, diversi danni agli edifici, tutti localizzati nella zona epicentrale ed in particolare nei Comuni di Subiaco, Agosta, Cerreto Laziale, Ciciliano, Cervara di Roma, Gerano, Bellegra, Canterano, Rocca S. Stefano, Sambuci e Tivoli.

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[box-note] 2001 - Esplosione a Roma (Via Ventotene)

Nella mattina del 27 novembre, a Roma, mentre i pompieri con i tecnici dell'azienda del gas stavano lavorando per cercare di individuare una perdita, dopo aver evacuato il palazzo probabilmente interessato dalla fuga di gas, c'è stata un'esplosione.

Gravissime le conseguenze per la squadra dei Vigili del Fuoco intervenuta, tutti investiti dallo scoppio, decine i feriti, notevoli danni materiali alle abitazioni circostanti. Cinque le palazzine evacuate.

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[box-note] 2002 - Monte Etna – Catania

Monte Etna - Catania: Il 26 ottobre 2002 l'Etna si risveglia e sono circa 200 le scosse sismiche, di origine vulcanica, registrate fra il 27 e il 28 ottobre 2002, dall'I.N.G. (Istituto Nazionale di Geofisica). I valori sono compresi tra il 3° e il 6° grado della scala Mercalli, con magnitudo tra 3.1 e 3.9.

L'eruzione del vulcano dell'Etna, che ha minacciato alcuni comuni pedemontani del versante Nord e Sud dell'Etna, ha reso necessaria la mobilitazione di uomini e mezzi di tutti i Comandi Provinciali della Sicilia, nonché l'approntamento di un Campo Base per il monitoraggio del fenomeno. Le scosse sismiche, che hanno raggiunto la massima intensità il 29 ottobre, causando numerosi dissesti statici, parziali crolli in diversi Comuni, tra cui S. Venerina, Zafferana, Milo e alcune frazioni di Acireale, Guardia e Mangano, hanno comportato un rafforzamento della macchina dei soccorsi, attraverso l'invio di ulteriori Sezioni Operative di Colonna Mobile dai Comandi dei Vigili del Fuoco della vicina Calabria e delle regioni Emilia Romagna e Lombardia, con un dispositivo di soccorso che ha coinvolto più di 400 unità, oltre al personale già operante sul territorio.

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[box-note] 2002 - Terremoto in Molise

Alle ore 16.08 del 31 ottobre 2002 l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia registra una scossa sismica di magnitudo 5.3, pari all'8° della scala Mercalli, con epicentro tra le località di Casacalenda, Sant'Elia a Pianisi e Colletorto.

La scossa principale è stata seguita da numerose repliche, le più forti delle quali si sono verificate alle 16.20, con magnitudo 4.1 (6° Mercalli), alle ore 18.21 con magnitudo 3.8 (5° Mercalli).

A causa degli eventi si sono verificati ulteriori crolli a Castellino sul Biferno, dove sono state interessate circa 50 abitazioni e la chiesa parrocchiale, a Bonefro ed a S. Giuliano di Puglia, un solaio a Termoli e numerose lesioni a Campobasso.

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[box-note] 2002 - Formazione di un lago epiglaciale sul Monte Rosa

Le alte temperature ed il conseguente innalzamento dello zero termico sulle Alpi Pennine hanno causato la formazione di un lago alla base del ghiacciaio Belvedere, nei pressi del preesistente lago delle Locce.

I Vigili del Fuoco, dopo aver effettuato le preliminari operazioni di monitoraggio, hanno approntato apposite infrastrutture destinate ad accogliere pompe idrovore ad altissima capacità, realizzando al contempo un by-pass a valle per il deflusso delle acque con il conseguente svuotamento del lago. Gli interventi, effettuati in condizioni di estrema difficoltà a causa delle temperature piuttosto basse e delle assenze di vie di comunicazione, hanno evitato che l'eventuale repentina tracimazione delle acque travolgesse l'abitato di Macugnaga, con conseguenze gravissime per la vita delle persone e per le loro abitazioni.

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[box-note] 2002 - Esplosione in un appartamento a Milano

Un inquilino, colpito da disperazione per lo sfratto in atto dall'appartamento in cui abitava, si barricava in casa e minacciando il suicidio apriva la valvola del gas provocando la saturazione degli ambienti.

Sul posto sono immediatamente intervenuti Vigili del Fuoco e Forze di Polizia. Mentre il personale della Polizia di Stato tentava un'opera di dissuasione gli operatori dei Vigili del Fuoco, ben consci del grave pericolo in atto, dovuto alla fuoriuscita di gas, si apprestavano ad intervenire.

Purtroppo, com'è noto, l'uomo ha esploso alcuni colpi di arma da fuoco, che hanno provocato il ferimento di un Vigile, mentre una successiva esplosione ha investito il Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco, unitamente a diversi agenti della Polizia di Stato ed ad un funzionario della stessa, in seguito deceduto.

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[box-note] 2002 – Incidente ferroviario, Messina

In prossimità della stazione di Rometta Marina è deragliato il treno 1932, che ha causato la morte di 8 persone e 30 feriti.

L'intervento di numerose squadre dei Vigili del Fuoco, affluite anche dai Comandi VV.F. di Messina, Catania e Palermo, ha consentito di portare in salvo molti viaggiatori rimasti intrappolati tra le lamiere della motrice e delle carrozze.

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[box-note] 2002 - Violento nubifragio

A seguito delle avverse condizioni meteorologiche che, nei primi giorni di settembre, hanno interessato il territorio dell'Isola d'Elba, provocando l'allagamento dei piani scantinati di molti edifici nonché diffusi smottamenti, numerose squadre dei Vigili del Fuoco sono intervenute in soccorso della popolazione, procedendo, tra l'altro, all'evacuazione da campeggi e strutture ricettive di circa 750 persone.

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[box-note] 2002 - Scosse sismiche a Palermo

Le numerose e forti scosse di terremoto verificatesi dal 9 settembre scorso nella città di Palermo hanno comportato una incessante attività delle squadre dei VV.F. per accertamenti statici (circa 2.000 i sopralluoghi effettuati), verifiche di stabilità ed attività di assistenza alla popolazione.

Alle ore 03.21 del 6 settembre, l'Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha registrato una scossa sismica di Magnitudo 5.6 con epicentro localizzato in mare a circa 40 km a largo di Palermo. La scossa è stata seguita da altre scosse di assestamento di intensità inferiore. L'evento è stato avvertito in tutta la Sicilia.

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[box-note] 2009 - Terremoto in Abruzzo

6 aprile, ore 3.32: la terra trema. Viene registrata una scossa di 5,8 gradi della scala Richter con epicentro a pochi chilometri dal centro del L'Aquila e a circa 5 km di profondità. Il sisma viene avvertito in tutto il centro-sud, dalla Romagna a Napoli.

Nelle 48 ore successive vengono registrate altre 256 scosse o repliche, delle quali più di 150 nel giorno di martedì 7 aprile, di cui 56 di grado superiore a 3,0. Lo sciame sismico prosegue per mesi con circa 18000 terremoti registrati in tutta l'area della città del L'Aquila.

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[box-note] 2009 - Incidente ferroviario di Viareggio

Il 29 giugno, alle ore 23.48, il treno merci 50325, con il suo con il suo convoglio di quattordici carri cisterna, deraglia in corrispondenza del sovrappasso pedonale che scavalca il fascio binari sud della stazione ferroviaria, collegando via Burlamacchi con via Ponchielli.

Quattro carri cisterna escono dai binari e uno si danneggia, con fuoriuscita del GPL. Il gas fuoriuscito si innesca immediatamente provocando un incendio di vastissime proporzioni che interessato la stazione di Viareggio, qualche centinaio di metri a sud del fabbricato viaggiatori della stessa, e le aree circostanti.

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[box-note] 2009 - Alluvione di Messina

Il 1° ottobre 2009 piogge torrenziali colpiscono la Sicilia orientale per tutta la notte, fino al mattno. Il nubifragio provoca lo straripamento dei corsi d'acqua e diversi eventi franosi, a cui seguì lo scivolamento a valle di colate di fango e detriti.

Particolarmente colpiti i paesi di Giampilieri, Molino, Altolia Briga, Pezzolo, Santa Marina e nei Comuni di Scaletta Zanclea e Itala, dove colate di fango bloccarono il sistema viario e isolarono Scaletta Zanclea.

L'alluvione provoca 37 vittime. Oltre duemila le persone evacuate.

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[box-note] 2010 - Nubifragio a Messina

Il 13 ottobre l'area ionica è interessata da diffusi temporali e piogge intense. Colpita particolarmente la zona Sud di Messina, le frazioni ed i comuni già interessati dall'alluvione del 1° ottobre 2009.

Circa 70 gli interventi effettuati dai Vigili del fuoco per straripamenti di torrenti, frane e smottamenti a Giampilieri Superiore, Altolia, Molino, Scaletta Zanclea, Itala, Briga Superiore, Pezzolo e Mili S. Marco, anche con impiego di mezzi movimento terra.

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[box-note] 2011 - Alluvione delle Cinque Terre

Il 25 ottobre, a seguito di una forte precipitazione che in sei ore ha riversato oltre 500 mm di pioggia sulla provincia della Spezia e di Massa e Carrara, si verifica una alluvione che interessa il territorio dello Spezzino e della Lunigiana.

Questo evento meteorologico causa la piena dei fiumi Vara e Magra e dei torrenti affluenti nelle zone colpite, con allagamenti e inondazione in tutta la Val di Vara e la Val di Magra.

I centri più colpiti sono quelli di Borghetto di Vara, Brugnato, Bonassola, Levanto, Monterosso al Mare, Vernazza, Beverino, Santo Stefano di Magra, Sarzana, Ameglia in provincia della Spezia e Aulla in provincia di Massa-Carrara.

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[box-note] 2012 - Naufragio della Costa Concordia

Venerdì 13 gennaio, alle ore 21.45, la nave da crociera Costa Concordia urta uno scoglio riportando l'apertura di una falla lunga circa 70 metri sul lato sinistro dell'opera viva. L'impatto provoca la brusca interruzione della crociera, un forte sbandamento e il conseguente arenamento sullo scalino roccioso del basso fondale prospiciente Punta Gabbianara, a nord di Giglio Porto.

Sulla nave erano presenti oltre 4000 persone, compreso l'equipaggio.

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[box-note] 2012 - Terremoto in Emilia

Alle ore 4.03 del 20 maggio, una scossa sismica di magnitudo 5.9 ha interessato un’ampia zona dell'Italia Settentrionale. L'epicentro è stato localizzato tra i comuni di Finale Emilia, Borgofranco sul Po e Felonica.

Alle prime luci dell'alba, l'elicottero VVF del nucleo di Bologna effettua una ricognizione rilevando danni alle strutture in particolare nei comuni delle province di Ferrara, Modena e Mantova.

Immediato l'invio delle sezioni operative dalle Direzioni Regionali di Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Lazio e Veneto e di ulteriori mezzi aerei del nucleo di Venezia.

Il 29 maggio ulteriori scosse colpiscono l'Emilia Romagna: alle ore 9.00 di magnitudo 5.8, alle 12.55 una di 5.4 e poi alle 13.00 altre due scosse, rispettivamente di magnitudo 4.9 e 5.2. L'epicentro viene individuato tra i comuni di Medolla, Mirandola e Cavezzo. Le scosse furono avvertite in tutta l'Italia settentrionale.

Ulteriori repliche, anche importanti, si susseguono nei giorni successivi.

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[box-note] 2013 - Terremoto in Lunigiana e Garfagnana

Alle ore 12.33 del 21 giugno, una scossa sismica di magnitudo 5.2 interessa le provincie di Massa Carrara e di Lucca.

Molte le repliche che si susseguono nelle settimane successive, alcune anche di magnitudo elevata.

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[box-note] 2013 - Alluvione in Sardegna

Il 18 novembre, la Sardegna viene colpita da una intensa perturbazione che provoca abbondantissime piogge, che provocano esondazioni e imponenti allagamenti.

Particolarmente colpite le provincie di Sassari, in particolare Olbia e Arzachena, di Nuoro.

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Fonti: VVF

Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. n. 20207 | 25 Luglio 2019

Sentenze cassazione civile

Lavaggio e manutenzione dei DPI

Civile Ord. Sez. L Num. 20207 Anno 2019

Presidente: TRIA LUCIA
Relatore: PONTERIO CARLA
Data pubblicazione: 25/07/2019

[panel]Ritenuto

1. con sentenza n. 319 depositata il 19.1.18, la Corte d'appello di Cagliari, in accoglimento dell'impugnazione proposta da De Vizia Transfer s.p.a e in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda degli eredi di A.M. e la domanda di P.F. e I.B., operatori ecologici autisti i primi due e operatore ecologico il terzo, di condanna di parte datoriale al risarcimento dei danni da inadempimento dell'obbligo di lavaggio e manutenzione dei dispositivi di protezione individuale (D.P.I.);
2. la Corte territoriale, richiamata la definizione di D.P.I. dettata dall'art. 40, D.Lgs. n. 626 del 1994, ("qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo"), nonché le previsioni di cui al D.Lgs. n. 475 del 1992 e alla circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 29.4.99, ha precisato come dispositivi di protezione individuale fossero solo quelli aventi, secondo valutazioni tecnico scientifiche, la funzionalità tipica di protezione dai rischi per la salute e la sicurezza e che rispondessero ai requisiti normativamene dettati per la relativa realizzazione e commercializzazione;
3. ha escluso che gli indumenti da lavoro forniti dalla società datoriale potessero essere qualificati D.P.I. in quanto non destinati a fornire una adeguata protezione dai rischi di contatto con sostanze nocive o agenti patogeni; come peraltro desumibile dal c.c.n.l. 2.8.1995, che prevedeva solo la fornitura "in uso gratuito" degli "indumenti da lavoro" elencati nell'art. 22, e dal successivo c.c.n.l. 30.4.2003 secondo cui gli indumenti rientrano nei D.P.I. "solo in caso di specifica destinazione a finalità protettive da parte del piano di valutazione dei rischi"; il documento di valutazione dei rischi (D.V.R.) redatto dalla società contemplava uno specifico corredo antinfortunistico per le mansioni di raccoglitore (protezione delle mani: guanti contro le aggressioni meccaniche e chimiche; protezione dei piedi: calzature di sicurezza con dotazione di lamina antiforo e suola antisdrucciolo; protezione della persona: dispositivi di alta visibilità applicati sugli indumenti; protezione contro gli agenti atmosferici: impermeabile con dispositivi ad alta visibilità") che non includeva gli indumenti; ha definito "adeguata" la contestata scelta datoriale, anche alla luce del verbale ispettivo dell'Ausl n. 8 "che aveva ritenuto di difficile quantificazione il livello di pericolosità del servizio di raccolta rifiuti";
4. la Corte di merito ha negato che la società appellante fosse classificabile come industria insalubre di prima classe sul rilievo che il D.M. 5.9.94 ha individuato come tali unicamente gli impianti di depurazione e trattamento dei rifiuti solidi e liquami e trattamento, lavorazione e deposito dei rifiuti tossici e nocivi e non i servizi di raccolta e smaltimento rifiuti svolti dai lavoratori in questione;
5. ha dato atto di come il verbale di sopralluogo dell'Asl del 4.8.2005 avesse indicato l'esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti, di un elevato ("pericolo maggiore") "rischio infettivo" richiamando, a proposito degli indumenti da lavoro, la previsione normativa sui D.P.I.; il medesimo verbale aveva fatto riferimento anche ad una "potenziale esposizione ad agenti microbiologici" ma riferita esclusivamente ai "casi di punture da ago e ferite da taglio" e ad alcune categorie di lavoratori con "mansioni di spazzino, di riporta sacchi, di addetto allo svuotamento dei pozzetti delle caditoie stradali" non svolte dall'appellato;
6. ha, infine, desunto dalla previsione contenuta nel citato verbale, di un lavaggio settimanale degli indumenti da parte della società, la conferma ulteriore della non appartenenza degli indumenti da lavoro in oggetto alla categoria dei D.P.I., risultando altrimenti l'unico lavaggio settimanale misura inidonea a preservare la salute dei dipendenti;
7. avverso tale sentenza gli eredi del sig. A.M. e i signori P.F. e I.B. hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, cui ha resistito con controricorso la società;
8. entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell'art. 380 bis.l. c.p.c.;[/panel]

[panel]Considerato

9. col primo motivo i ricorrenti hanno censurato la sentenza, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 626 del 1994 e dell'art. 216, T.U. n. 1265 del 1934, per aver escluso che la De Vizia Transfer s.p.a. fosse classificabile come impresa insalubre di prima classe;
10. col secondo motivo i ricorrenti hanno dedotto, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 40, D.Lgs. n. 626 del 1994; 1, comma 2, D.Lgs. n. 475 del 1992; 379 del D.P.R. n. 547 del 1955 e 43, comma 4, D.Lgs. n. 626 del 1994, per avere la sentenza impugnata affermato che gli indumenti forniti ai lavoratori per lo svolgimento della prestazione non avessero alcuna funzione protettiva e quindi non fossero classificabili come D.P.I.;
11. col terzo motivo di ricorso è stata denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché omesso esame di un punto decisivo della controversia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per avere la Corte d'appello erroneamente escluso il rischio alla salute, certificato dalle relazioni dell'Ausl, cui erano esposti i lavoratori per il contatto con i rifiuti solidi urbani e per il lavaggio nelle proprie abitazioni degli indumenti usati durante l'attività lavorativa; i ricorrenti hanno richiamato il verbale ispettivo del 4.8.2005 che aveva evidenziato l'esistenza, nel settore della raccolta e dello stoccaggio dei rifiuti solidi urbani, di un rischio di esposizione degli addetti ad agenti microbiologici, con particolare riferimento al virus dell'epatite B (HBV), e con pericolo di contatto, specie per alcune mansioni come quelle del portasacchi, riguardante varie parti del corpo tra cui mani, braccia, gambe;
12. col quarto motivo è stata dedotta erronea valutazione degli artt. 4, comma 2, e 42 del D.Lgs. n. 626 del 1994, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la sentenza impugnata considerato attendibile il piano di valutazione dei rischi eseguito dal datore di lavoro;
13. col quinto motivo i ricorrenti hanno censurato la decisione per violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 c.c., 4, D.Lgs. n. 626 del 1994; dell'art. 67, comma 2, lett. a) c.c.n.l. 30.4.2003, in relazione all'alt. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte d'appello escluso che gli indumenti da lavoro forniti ai dipendenti costituissero D.P.I. in quanto non menzionati nel piano di valutazione rischi aziendale; 
14. col sesto motivo i ricorrenti hanno dedotto violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'alt. 2697 c.c., in relazione all'alt. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., per omesso esame di un punto decisivo della controversia ed, esattamente, per avere la Corte d'appello erroneamente disatteso che tra gli indumenti forniti dall'azienda ai lavoratori fossero ricomprese le scarpe, i guanti e la pettina alta visibilità che nel D.V.R. aziendale erano classificati D.F.I.;
15. il secondo, il terzo e il quinto motivo di ricorso, che si trattano in via prioritaria ed unitariamente per ragioni di ordine logico, sono fondati nei limiti di seguito esposti;
16. non è di ostacolo all'accoglimento del terzo motivo l'impropria invocazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., posto che, secondo il costante indirizzo di questa Corte, ove si possa identificare il contenuto delle censure attraverso le ragioni prospettate dal ricorrente, il profilo sostanziale dell'atto deve prevalere su quello formale, sicché l'omessa o l'erronea indicazione degli articoli di legge viene a perdere ogni rilevanza (Cass. n. 4923 del 1995; n. 302 del 1996; n. 1430 del 1999; n. 15713 del 2002) e, nella specie, dalle argomentazioni poste a base delle censure risulta evidente la denuncia di violazione dell'alt. 2087 c.c. , con riguardo all'affermata esclusione del rischio alla salute per i lavoratori di cui si tratta, in contrasto con quanto affermato - pacificamente - nelle relazioni dell'Ausl in sede di ispezione;
17. il profilo di censura riferito all'art. 360, n. 5, c.p.c. (formulato nel medesimo terzo motivo) è da considerare inammissibile perché il vizio prospettato attiene alla qualificazione e valutazione giuridica di fatti e quindi concerne parti della motivazione in diritto e non l'omesso esame di fatti veri e propri, principali o secondari, come richiesto dal vigente art. 360, n. 5, c.p.c.;
18. ciò posto, deve essere, in primo luogo, ricordato che, ai sensi dell'alt. 40, D.Lgs. n. 626 del 1994, recante attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di lavoro, "1. Si intende per dispositivo di protezione individuale qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento o accessorio destinato a tale scopo. 2. Non sono dispositivi di protezione individuale: a) gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore;...";
19. tale previsione si pone in continuità con quelle di cui al D.P.R. n. 547 del 1955; ai sensi dell'art. 377, relativo a "Mezzi personali di protezione", "il datore di lavoro, fermo restando quanto specificatamente previsto in altri articoli del presente decreto, deve mettere a disposizione dei lavoratori mezzi personali di protezione appropriati ai rischi inerenti alle lavorazioni ed operazioni effettuate, qualora manchino o siano insufficienti i mezzi tecnici di protezione. - I detti mezzi personali di protezione devono possedere i necessari requisiti di resistenza e di idoneità nonché essere mantenuti in buono stato di conservazione"; secondo l'art. 379 relativo agli "Indumenti di protezione", " Il datore di lavoro deve, quando si è in presenza di lavorazioni, o di operazioni o di condizioni ambientali che presentano pericoli particolari non previsti dalle disposizioni del Capo 3^ del presente Titolo (art. 366 ss.), mettere a disposizione dei lavoratori idonei indumenti di protezione"). L'art. 40 cit. è stato poi sostituito dall'alt. 74, D.Lgs. n. 81 del 2008, che ne ricalca interamente il testo;
20. il D.Lgs. n. 626 del 1994, all'art. 4, comma 5, prevede che "il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori e, in particolare..lett. d) fornisce ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il responsabile del servizio di prevenzione e protezione";
21. l'interpretazione data dalla Corte di merito al citato art. 40, volta a far coincidere i D.P.I. con le attrezzature formalmente qualificate come tali in ragione della conformità a specifiche caratteristiche tecniche di realizzazione e commercializzazione, non tiene adeguatamente conto del tenore letterale delle disposizioni richiamate e, soprattutto, della finalità delle stesse, di tutela della salute quale diritto fondamentale (art. 32 Cost.);
22. l'espressione adoperata dall'alt. 40 cit., che fa riferimento a "qualsiasi attrezzatura" nonché ad "ogni complemento o accessorio" destinati al fine di proteggere il lavoratore "contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la sicurezza e la salute durante il lavoro", deve essere intesa nella più ampia latitudine proprio in ragione della finalizzazione a tutela del bene primario della salute e dell'ampiezza della protezione garantita dall'ordinamento attraverso non solo disposizioni che pongono specifici obblighi di prevenzione e protezione a carico del datore di lavoro, ma anche attraverso la norma di chiusura di cui all'alt. 2087 c.c.;
23. lo stesso D.Lgs. 81 del 2008 (seppure non applicabile razione temporis) contiene nell'allegato VIII un "Elenco" espressamente definito "indicativo e non esauriente delle attrezzature di protezione individuale", che costituisce la conferma del contenuto necessariamente "aperto" della categoria dei mezzi di protezione e quindi della correttezza della sola interpretazione in grado di salvaguardare l'ampiezza dell'obbligo di tutela posto anche dalle disposizioni in esame;
24. da tali premesse discende come la previsione dell'art. 43, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 626 del 1994, secondo cui "3. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori i DPI (dispositivi di protezione individuale) conformi ai requisiti previsti dall'art. 42 e dal decreto di cui all'art. 45, comma 2"; 4. Il datore di lavoro: - a) mantiene in efficienza i DPI (dispositivi di protezione individuale) e ne assicura le condizioni d'igiene, mediante la manutenzione, le riparazioni e le sostituzioni necessarie ( )", non possa essere letta in senso limitativo del contenuto e del novero dei D.P.I., come ha fatto la Corte d'appello, bensì quale previsione di un ulteriore obbligo di carattere generale, posto a carico del datore di lavoro, di adeguatezza dei D.P.I. e di manutenzione dei medesimi;
25. parimenti non rilevante è la circostanza della previsione o meno degli specifici D.P.I. nell'ambito del documento di valutazione dei rischi, atteso che l'obbligo posto dall'art. 4, comma 5 dei D.L.gs. n. 626 del 1994 di fornire ai lavoratori i necessari e idonei dispositivi di protezione individuale, costituisce un precetto al quale il datore di lavoro è tenuto a conformarsi a prescindere dal fatto che il loro utilizzo sia specificamente contemplato nel documento di valutazione dei rischi, confezionato dal medesimo datore di lavoro (in tal senso, con riferimento alla omologa previsione di cui all'art. 18, lett. d), D.Lgs. n. 81 del 2008, cfr. Cass. pen., n. 13096 del 2017); 
26. la categoria dei D.P.I. deve essere quindi definita in ragione della concreta finalizzazione delle attrezzature, degli indumenti e dei complementi o accessori alla protezione del lavoratore dai rischi per la salute e la sicurezza esistenti nelle lavorazioni svolte, a prescindere dalla espressa qualificazione in tal senso da parte del documento di valutazione dei rischi e dagli obblighi di fornitura e manutenzione contemplati nel contratto collettivo;
27. da questo punto di vista appare coerente la distinzione che l'art. 40 cit. pone tra ciò che integra un D.P.I. e ciò che non è tale; in particolare, la lett. a) del comma 2 esclude che costituiscano D.P.I. "gli indumenti di lavoro ordinari e le uniformi non specificamente destinati a proteggere la sicurezza e la salute del lavoratore", vale a dire gli indumenti che in nessun modo sono correlati alla finalità di protezione da un rischio per la salute, e che assolvono unicamente alla funzione di uniforme aziendale o di preservare gli abiti civili;
28. in tal senso si è espressa la circolare del Ministero del Lavoro n. 34 del 1999 (che non costituisce fonte del diritto, ma presupposto chiarificatore della posizione espressa dall'Amministrazione su un determinato oggetto, cfr. Cass. n. 7889 del 2011; n. 23042 del 2012; n. 1577 del 2014; n. 280 del 2016) che ha elencato le diverse funzioni a cui possono assolvere gli indumenti di lavoro, in particolare: a) elemento distintivo di appartenenza aziendale, ad esempio uniformi o divise; b) mera preservazione degli abiti civili dalla ordinaria usura connessa all'espletamento dell'attività lavorativa; c) protezione da rischi per la salute e la sicurezza; la circolare ha specificato che "in quest'ultimo caso gli indumenti rientrano nei dispositivi di sicurezza che assolvono alla funzione di protezione dai rischi, ai sensi dell'art. 40 del Decreto Legislativo 19 settembre 1994 n. 626. Rientrano, ad esempio, tra i D.P.I. ... gli indumenti per evitare il contatto con sostanze nocive, tossiche, corrosive o con agenti biologici ecc.";
29. questa Corte ha più volte affermato, anche sotto il vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994, come "in tema di tutela delle condizioni di igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro, ed in particolare di fornitura ai lavoratori di indumenti, alla stregua della finalità della disciplina normativa apprestata dal legislatore, per "indumenti di lavoro specifici" si debbono intendere le divise o gli abiti aventi la funzione di tutelare l'integrità fisica del lavoratore nonché quegli altri indumenti, essenziali in relazione a specifiche e peculiari funzioni, volti ad eliminare o quanto meno a ridurre i rischi ad esse connessi (come la tuta ignifuga del vigile del fuoco), oppure a migliorare le condizioni igieniche in cui viene a trovarsi il lavoratore nello svolgimento delle sue incombenze, onde scongiurare il rischio potenziale di contrarre malattie, come appunto deve reputarsi per la divisa dell'operatore ecologico (cfr. Cass. n. 11071 del 2008; nello stesso senso Cass. n. 23314 del 2010);
30. con particolare riferimento agli operatori ecologici, addetti alla raccolta dei rifiuti, questa Corte ha sempre affermato l'obbligo datoriale di manutenzione e lavaggio degli indumenti da lavoro sul presupposto, fattuale e logico, della qualificazione degli indumenti medesimi come dispositivi di protezione individuale;
31. si è in particolare precisato come "l'idoneità degli indumenti di protezione che il datore di lavoro deve mettere a disposizione dei lavoratori - a norma del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 379 fino alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 626 del 1994 e ai sensi dell'art. 40, art. 43, commi 3 e 4, di tale decreto, per il periodo successivo - deve sussistere non solo nel momento della consegna degli indumenti stessi, ma anche durante l'intero periodo di esecuzione della prestazione lavorativa. Le norme suindicate, infatti, finalizzate alla tutela della salute quale oggetto di autonomo diritto primario assoluto (art. 32 cost.), solo nel suddetto modo conseguono il loro specifico scopo che, nella concreta fattispecie, è quello di prevenire l'insorgenza e il diffondersi d'infezioni. Ne consegue che, essendo il lavaggio indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza, esso non può non essere a carico del datore di lavoro, quale destinatario dell'obbligo previsto dalle citate disposizioni", (cfr. Cass., n. 11139 del 1998; n. 22929 del 2005; n. 14712 del 2006; n. 22049 del 2006; n. 18573 del 2007; n. 11729 del 2009; n. 16495 del 2014; n. 8585 del 2015);
32. nella sentenza n. 18674 del 2015, questa Corte, nel confermare la pronuncia di appello che aveva qualificato come D.P.I. gli indumenti usati da una lavoratrice addetta alla pulizia delle carrozze dei treni, attività comportante la raccolta di rifiuti, lo svuotamento di cestini e portacenere e l'inevitabile contatto con sostanze nocive o patogene, come la polvere, la sporcizia, residui organici, 
ha affermato che "per i lavori di pulizia di ambienti, treni, ecc. la semplice tuta di cotone può considerarsi un (seppur minimo) mezzo o dispositivo di protezione individuale, e non solo strumento identificativo dell'azienda per cui si lavora, e come tale essa deve essere fornita dal datore di lavoro e tenuta in stato idoneo"; la medesima pronuncia ha ritenuto come l'inclusione degli indumenti tra i D.P.I. in ragione della funzione protettiva svolta dovesse prescindere dalla loro qualificazione o meno in tal senso da parte delle fonti contrattuali collettive e, deve aggiungersi, anche da parte del documento di valutazione dei rischi;
33. sulla base del quadro normativo in materia di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, di rilievo costituzionale nonché attuativo delle direttive europee (a partire dalla direttiva quadro 89/391/CE) e delle convenzioni internazionali, incentrato sull'obbligo di prevenzione quale insieme di "disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell'attività lavorativa per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità dell'ambiente esterno" (art. 2, lett. g), D.Lgs. n. 626 del 1994), la giurisprudenza di legittimità ha collegato l'obbligo di fornitura e manutenzione dei D.P.I. alla idoneità, seppur minima, dei medesimi di ridurre i rischi legati allo svolgimento dell'attività lavorativa, costituendo specifico obbligo datoriale quello di porre in essere tutte le misure necessarie per garantire la salute e sicurezza dei lavoratori e quindi per prevenire, con specifico riferimento agli operatori ecologici, l'insorgere e la diffusione di infezioni in danno dei medesimi e dei loro famigliari, a cui il rischio si estenderebbe in caso di lavaggio degli indumenti da lavoro in ambito domestico;
34. nessun rilievo può attribuirsi alle pronunce di legittimità richiamate nella sentenza impugnata e nel controricorso (Cass. nn. 2625, 5176, 13745 del 2014), in quanto relative a lavoratori non addetti alla raccolta dei rifiuti, bensì a mansioni di giardiniere; neppure paiono significativi i precedenti di questa Corte (sentenze Sez. 6, nn. 13931 - 13936, 13707, 14033 -14035, tutte pronunciate all'udienza del 15.4.2014) in cui è precisato come fosse estraneo al giudizio trattato il thema decidendum "della tutela della salute, della conformità degli indumenti forniti alla normativa vigente e, quindi, della violazione deM'art. 2087 c.c., dell'art. 35, punti 1 e 3 (b e c), art. 4 (c) e D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 40..."; peraltro, nelle fattispecie decise con le sentenze del 2014 appena richiamate non risulta che l'azienda avesse accettato di farsi carico del lavaggio settimanale degli indumenti da lavoro, come invece avvenuto da parte della società attuale controricorrente, a seguito delle prescrizioni contenute nel verbale ispettivo dell'Asl;
35. la sentenza impugnata ha dato atto dell'esito del sopralluogo effettuato dall'Asl il 4.8.2005 che aveva individuato l'esistenza, nel settore della raccolta dei rifiuti svolta dalla società, di un rischio infettivo, più esattamente di un rischio da contatto con sostanze tossiche, nocive ed agenti biologici;
36. la Corte di merito, nonostante l'accertamento sulla esistenza di rischi, specie di natura infettiva, per la salute dei lavoratori impegnati nell'attività di raccolta dei rifiuti, rischi legati al possibile contatto con sostanze nocive, tossiche o corrosive, ha escluso la qualificazione degli indumenti forniti dalla società come D.P.I. sul rilievo che gli stessi non possedessero una specifica funzionalità protettiva desumibile da caratteristiche tecniche dettate per la loro realizzazione e commercializzazione, e ciò nonostante non risultassero adottati altri strumenti in grado di fronteggiare il rischio pacificamente accertato, cosicché rappresentavano per gli operatori ecologici l'unico schermo di protezione concreto utilizzabile contro il possibile contatto con sostanze nocive per la salute
37. in tal modo la sentenza impugnata è incorsa nel denunciato vizio di violazione di legge avendo interpretato l'art. 40, comma 1, D.lgs. n. 626 del 1994, e la nozione legale di D.P.I. come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate; laddove la disposizione suddetta, per l'ampio tenore letterale della previsione e la precipua finalità di tutela di beni fondamentali del lavoratore, deve essere letta, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, nel senso di includere nella categoria dei D.P.I. qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, ai fini dell'adempimento datoriale all'obbligo, posto dall'art. 4, comma 5, D.lgs. n. 626 del 1994; 
38. l'accoglimento del secondo, terzo e quinto motivo di ricorso, porta a ritenere assorbiti il primo e il sesto motivo;
39. risulta, invece, inammissibile il quarto motivo di ricorso in quanto contenente censure di incompletezza ed inattendibilità del D.V.R. che non è stato, tuttavia, prodotto né trascritto nelle parti rilevanti;
40. la sentenza impugnata deve essere pertanto cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà ad un riesame della fattispecie attenendosi a tutti i principi sopra enunciati e quindi anche al seguente:
"la nozione legale di Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.) non deve essere intesa come limitata alle attrezzature appositamente create e commercializzate per la protezione di specifici rischi alla salute in base a caratteristiche tecniche certificate, ma, in conformità alla giurisprudenza di legittimità, va riferita a qualsiasi attrezzatura, complemento o accessorio che possa in concreto costituire una barriera protettiva, sia pure ridotta o limitata, rispetto a qualsiasi rischio per la salute e la sicurezza del lavoratore, in conformità con l'art. 2087 cod. civ., norma di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni e malattie professionali, suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro. Nella medesima ottica il datore di lavoro è tenuto a fornire i suddetti indumenti ai dipendenti e a garantirne l'idoneità a prevenire l'insorgenza e il diffondersi di infezioni provvedendo al relativo lavaggio, che è indispensabile per mantenere gli indumenti in stato di efficienza e che, pertanto, rientra tra le misure necessarie "per la sicurezza e la salute dei lavoratori" che il datore di lavoro è tenuto ad adottare ai sensi dell'art. 4, comma 5, del d.lgs. n. 626 del 1994 e degli artt. 15 e ss. del d.lgs. n. 81 del 2008 e s.m.i. (Fattispecie riguardante gli addetti alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani)". [/panel]

[panel]P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo, terzo e quinto motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, dichiara inammissibile il quarto motivo, assorbiti il primo e il sesto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d'appello di Cagliari, in diversa composizione, cui demanda anche di provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Cosi deciso nell'Adunanza camerale del 3.4.2019[/panel]

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Aging eBook: il Libro d’Argento su Invecchiamento e Lavoro

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Aging eBook: il Libro d’Argento su Invecchiamento e Lavoro

Aging eBook: il Libro d’Argento su Invecchiamento e Lavoro” nasce dall’attività di un Gruppo di Lavoro della Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione (CIIP). La CIIP è costituita da associazioni professionali e scientifiche di operatori pubblici e privati nel campo della prevenzione dei rischi lavorativi ed ambientali. Tali associazioni, a vario titolo e in diversi campi, affrontano temi quali l’organizzazione del lavoro, la biomeccanica, la medicina del lavoro, la epidemiologia, la tossicologia, ecc., per delineare le interfacce e le relazioni tra uomo-donna e macchine, ambienti, organizzazione. CIIP ha costituito un gruppo di lavoro su “invecchiamento e lavoro” costituto da medici del lavoro, ergonomi e tecnici che esamina la principale letteratura internazionale sul tema, raccoglie esperienze e formula proposte per le realtà italiane.

L’eBook è fortemente integrato con il sito della CIIP (https://www.ciip-consulta.it) con link che consentono di accedere a contenuti di approfondimento o di documentazione.

Anche in Italia si manifesta l’invecchiamento della popolazione lavorativa dovuto sia a ragioni demografiche, sia all’incremento dell’età di pensionamento, per vincoli o per scelte economiche a seconda dei punti di vista. Soltanto una parte dei lavoratori anziani pensionati è sostituita da giovani. Ciò comporta maggiori difficoltà e problemi di idoneità e di collocabilità per diversi lavoratori anziani, con o senza malattie, soprattutto ma non soltanto nelle occupazioni con importanti carichi fisici, mentali od organizzativi.

Il tema è stato analizzato e sono proposte soluzioni sulla falsariga dell’approccio multiplo (individuale, aziendale e sociale) definito da J.Illmarinen et al., evidenziando risorse e punti critici delle variegate realtà italiane e proponendo misure di carattere ergonomico fisico, mentale ed organizzativo. Si è ispirato alla prima griglia di analisi del francese INRS modulandola sulla base di ricerche ed esperienze della Clinica del Lavoro di Milano e di altri, proponendo checklist generali e di dettaglio per imprese, lavoratori e consulenti.

Il gruppo di lavoro CIIP ribadisce tuttavia che le misure di condotta individuale (stili di vita) ed ergonomiche sono necessarie ma non sufficienti per tutti i lavoratori anziani e per tutti i compiti lavorativi e che, di conseguenza, occorre anche aggiornare misure efficaci di tutela sociale e permettere forme adeguate di uscita graduale dal lavoro.

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INDICE
Introduzione
Presidenza e Coordinamento del Gruppo Ciip “Invecchiamento e Lavoro”
Il gruppo di lavoro ciip e il Libro d’argento

PARTE GENERALE
Premessa:il mondo che invecchia. G. Costa

1. PARTE PRIMA
INVECCHIAMENTO E LAVORO: CONSIDERAZIONI GENERALI
1.1 Invecchiamento della popolazione lavorativa, pensionamento e salute. A. d’Errico
1.2 Fisiologia dell’invecchiamento in relazione al lavoro. R. Ghersi
1.3 L’approccio multiplo all’invecchiamento attivo sul lavoro nelle realtà italiane. R. Ghersi
1.3.1 Aspetti previdenziali. G. Costa
1.3.2 L’approccio ergonomico. R. Ghersi, O. Menoni
1.4 La valutazione dei rischi tenendo conto dell’età dei lavoratori. T. Vai, O. Menoni, D. Talini, M. Tasso
1.5 Invecchiamento al Lavoro e Lavoro a Turni. G. Costa
1.6 La sorveglianza sanitaria per i lavoratori anziani. D. Talini, T. Vai, C. Nava
1.7 La promozione della salute sul lavoro. D. Talini, R. Ghersi
1.8 La Salute del Lavoratore tra Direzione del Personale, Medico Competente e RSPP. G. Rosa, Q. Bardoscia

2. PARTE SECONDA: GESTIONE DELL’ INVECCHIAMENTO DEL PERSONALE IN SANITÀ a cura di O. Menoni, C. Nava, D. Talini, T. Vai, M.Tasso
2.1. Invecchiamento della popolazione lavorativa in sanità
2.2 Proposta di approccio integrato
2.3 Approccio per la gestione del rischio tenendo conto dell’età
2.3.1 Proposte di valutazione del rischio per l’apparato muscoloscheletrico
2.4 Aspetti di sorveglianza sanitaria e ruolo del medico competente in sanità
2.5 Il rischio psicosociale in sanità. F. D’Orsi

_________

All.1 - Mappa dei rischi rilevanti in relazione all'età

Si propone questo strumento sperimentale di valutazione (file Excel), uno strumento di ordine generale che potrà essere strutturato in modo più specifico per i diversi comparti produttivi.

All.2 - Esempio di mappa dei rischi rilevanti in relazione all'età compilata

Esempio di utilizzazione del programma per addetti di industria meccanica

All.3 - Mappa dei rischi rilevanti in relazione all'età ambito sanitario

Lo strumento è impostato per l'analisi di un reparto Ospedaliero o Struttura assistenziale

All.4 - Esempio di mappa dei rischi rilevanti in relazione all'età - ambito sanitario

Esempio di utilizzazione del programma per analisi per lavoratori OSS in medicina

Questionario "Work Ability Index" in italiano.

Questionario "WAI"

 ...
 
Fonte: CIIP 2018
 

Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. n. 14106 | 01 Giugno 2018

Sentenze cassazione civile

Rischio da radiazioni ionizzanti

Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. 1° Giugno 2018 n. 14106

Civile Ord. Sez. L Num. 14106 Anno 2018
Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE
Relatore: BLASUTTO DANIELA
Data pubblicazione: 01/06/2018

[panel]Ritenuto

1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 2565/12, ha respinto l'appello proposto dall'INAIL, subentrato all'ISPELS (Istituto per la prevenzione e la sicurezza del lavoro), avverso la pronuncia che, in accoglimento della domanda proposta da M.C., aveva condannato l'Istituto al pagamento della somma di € 6.582,95 a titolo di indennità di rischio da radiazioni ionizzanti per il periodo 2002-2007.
2. Il M.C. aveva dedotto di avere svolto le mansioni di collaboratore tecnico presso il "laboratorio controlli non distruttivi" del Dipartimento tecnologie di sicurezza e di avere eseguito radiografie a raggi X su serbatoi metallici in pressione e giunti saldati in genere, sia in laboratorio sia all'esterno, utilizzando in tal caso un'apparecchiatura portatile; aveva altresì dedotto di essere stato inserito dall'esperto qualificato nella cat. A prevista dal D.Lgs. n. 230/1995, riservata ai lavoratori massimamente esposti alle radiazioni ionizzanti nell'espletamento dell'attività lavorativa.
3. Il Giudice di primo grado aveva accolto la domanda, rilevando altresì che nelle more del giudizio la Commissione nominata dall'ISPELS aveva concluso i propri lavori riconoscendo l'indennità nella misura massima al personale della categoria A.
4. Secondo l'INAIL, il Giudice di primo grado aveva errato per avere ritenuto: a) che il diritto potesse essere riconosciuto a prescindere dalla valutazione che le parti avevano riservato all'apposita Commissione tecnica; b) che potesse rilevare nel presente giudizio l'esito cui la Commissione medesima era pervenuta nella seduta del 6 ottobre 2008, giacché la valutazione non si riferiva in modo espresso anche al periodo antecedente.
5. Nel disattendere tali censure, la Corte di appello ha ritenuto, in sintesi, che:
- l'art. 26 del D.P.R. n. 171/1991 prevede due forme di esposizione dalle quali fa discendere l'attribuzione dell'indennità in misura piena o parziale, mentre il D.Lgs. n. 230/1995 individua, secondo un parametro oggettivo, i lavoratori esposti, distinguendoli in due categorie a seconda della maggiore o minore esposizione; le parti collettive, nel richiamare entrambe le fonti avevano inteso evidentemente riconoscere al lavoratore della categoria A l'indennità piena e a quello della categoria B l'indennità in misura ridotta;
- poiché non era contestato tra le parti che il M.C., sin dall'entrata in vigore del D.Lgs. n. 230 del 2005, fosse stato inserito nella categoria A, in quanti massimamente esposto al rischio radiazioni, allo stesso doveva essere riconosciuta, a partire dalla stessa data, l'indennità nella misura richiesta;
- inoltre, la Commissione istituita dall'ISPELS in data 17 aprile 2008, con verbale del 6 ottobre 2008, espressamente richiamato dal Commissario Straordinario nel provvedimento del 17 novembre 2008, aveva individuato nel personale classificato in categoria A quello di cui al punto 1 dell'art. 26 del d.P.R. n. 171/91 e nel personale classificato in categoria B quello di cui al punto 3 dell'art.26; tale valutazione spiegava effetti anche per il periodo anteriore alla pronuncia della Commissione.
6. Avverso tale sentenza l'INAIL ha proposto ricorso affidato ad un unico motivo, al quale ha opposto difese il M.C. con controricorso.
7. Il resistente ha depositato memoria ex art. 380-bis.l c.p.c. (inserito dall'art. lett., f, del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. n. 25 ottobre 2016, n. 197). [/panel]

[panel]Considerato

1. Il ricorso, denunciando violazione dell'art. 1362 e segg. c.c., in relazione all'art. 54 CCNL 1994/1997, dell'art. 47 CCNL 1998/2001, dell'art. 42 CCNL 2002/2005 del comparto della ricerca, dell'art. 26 del d.P.R. n. 171/1991 e della disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 230/1995 (art. 360 n. 3 c.p.c.), addebita alla sentenza di avere erroneamente interpretato la disciplina contrattuale in tema di diritto all'indennità di rischio radiologico dei dipendenti esposti a radiazioni ionizzanti.
2. A sostegno dell'impugnazione l'INAIL rappresenta, in sintesi, quanto segue:
- l'introduzione della Legge n. 460 del 1998 ha segnato il passaggio da un sistema basato su meri requisiti soggettivi, quale il solo fatto dell'esercizio della professione di radiologo, ad un sistema ancorato a precisi elementi oggettivi, come l'accertamento della continua e permanente esposizione a rischio radiologico, ampliando, conseguentemente, le categorie destinatarie di tali beneficio al di là del settore della radiologia medica, sempre subordinatamente all'accertamento della sussistenza delle condizioni oggettive richieste;
- nel processo di estensione di tale disciplina a categorie precedentemente non individuate, avvenuto in sede di contrattazione collettiva nell'ambito del comparto della ricerca, si colloca l'art. 26 del decreto del Presidente della Repubblica n. 171 del 1991 (recante il recepimento dell’accordo per il triennio contrattuale 1988/1990 concernente il personale degli Enti di ricerca), il cui testo, oltre a richiamare pedissequamente l'art. 1, commi 2 e 3, della Legge n. 460 del 1988, prevede l'istituzione di un'apposita Commissione composta da almeno tre esperti qualificati della materia per l’accertamento della sussistenza delle condizioni per l'erogazione del beneficio in parola;
- la contrattazione collettiva di settore (art. 54 CCNL 1994/1997, art. 47 CCNL 1998/2001) ha richiamato in primo luogo l'art. 26 del d.P.R. n. 171/1991, con una proposizione che non può che essere interpretata come rinvio alla disciplina ivi contenuta, atteso che diversamente avrebbe richiamato esclusivamente il D.Lgs. n. 230 del 1995;
- dunque, in mancanza dell'accertamento della quantità di radiazioni cui il lavoratore è stato esposto, effettuato da tale Commissione tecnica, resta preclusa all'Amministrazione la possibilità di riconoscere il beneficio oggetto di causa;
- il giudizio espresso dalla Commissione tecnica non può spiegare effetti anche per il periodo anteriore al momento in cui la valutazione è stata operata.
3. Il ricorso è inammissibile, come già statuito in identica fattispecie da questa Corte con sentenza n. 31081/2017, per le ragioni tutte indicate nella motivazione della medesima sentenza, da intendersi qui trascritta ex art. 118 disp. att. cod. proc. civ..
4. In particolare, è stato evidenziato che, secondo l'assunto dell'INAIL, le disposizioni contenute nei CCNL del comparto degli enti di ricerca succedutesi nel tempo devono essere interpretate nel senso che con il richiamo nelle stesse contenuto sia all'articolo 26 del d.P.R. n. 171 del 1991, sia al D.Lgs. n. 230/95, le parti sociali abbiano voluto mantenere inalterato il meccanismo previsto dal richiamato art. 26, che subordina la corresponsione dell'indennità oggetto di causa alla verifica da parte dell'apposita Commissione tecnica.
5. Tale essendo il nucleo della censura svolta con il ricorso per cassazione, la risoluzione della questione in punto di diritto lascia impregiudicata l'altra questione, pure rilevante ai fini del giudizio e costituente un'autonoma ratio decidendi, relativa al carattere costitutivo o meramente dichiarativo delle pronunce della Commissione tecnica di cui all'art. 26 d.P.R. n. 171/91. Difatti, mentre la Corte d'appello ha espressamente attribuito al relativo accertamento carattere dichiarativo ed effetto retroattivo, l'Istituto ricorrente si è limitato alla mera enunciazione, neppure compiutamente esplicitata, del carattere costitutivo di tale accertamento e quindi della sua efficacia solo ex nunc e non ex tunc. Del tutto generica è la censura svolta al riguardo (pag. 12, ultima parte), limitata all'apodittico assunto secondo cui nessuna indennità potrebbe essere riconosciuta per il periodo anteriore al 6 ottobre 2008.
6. E' noto che il ricorso per cassazione costituisce un rimedio impugnatorio a critica vincolata ed a cognizione determinata dall'ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti. Ne consegue che, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes deciderteli, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. Sezioni Unite, n. 7931 del 2013; conf. Cass. n. 4293 del 2016). Tale orientamento costituisce lo sviluppo di quello secondo cui, quando la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo divenuta definitiva l'autonoma motivazione non impugnata, in nessun caso potrebbe produrre l'annullamento della sentenza (da ultimo, Cass. 9752 del 2017).
7. Vale aggiungere che altre sentenze di questa Corte hanno rigettato analoghi ricorsi proposti dall'INAIL alla stregua di argomentazioni di inammissibilità del tutto sovrapponibili (Cass. n. 21666/2017 e 21555/2017, punti 12 e 13).
8. Per le ragioni sopra esposte, aventi carattere assorbente, il ricorso va dichiarato inammissibile, con onere delle spese a carico di parte soccombente.
9. Le spese sono liquidate, nella misura indicata in dispositivo, in favore del procuratore, avv. Paolo D'Urbano, dichiaratosi antistatario.[/panel]

[panel]P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna l'INAIL al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in € 4.000,00 per compensi e in € 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge, da distrarsi in favore del procuratore antistatario.
Così deciso nella Adunanza camerale del 22 marzo 2018[/panel]

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Incostituzionale il “Decreto ILVA” del 2015

Incostituzionale decreto ILVA 2015

Incostituzionale il “Decreto ILVA” del 2015 - Sentenza Corte Costituzionale n. 58 2018

È incostituzionale il “decreto ILVA” del 2015 che consentiva la prosecuzione dell’attività di impresa degli stabilimenti, in quanto di interesse strategico nazionale, nonostante il sequestro disposto dall’autorità giudiziaria per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori.

Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 58 depositata il 23 marzo 2018 (relatrice Marta Cartabia) che dichiara illegittimi sia l’articolo 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) sia gli articoli 1, comma 2, e 21-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria).

La questione nasce a seguito dell’infortunio mortale subito da un lavoratore dell’ILVA esposto, senza adeguate protezioni, ad attività pericolose nell’area di un altoforno dello stabilimento di Taranto. L’altoforno era stato sequestrato dall’autorità giudiziaria ma, pochi giorni dopo, il legislatore aveva disposto la prosecuzione dell’attività di impresa, alla sola condizione che entro trenta giorni la parte privata colpita dal sequestro approntasse un piano di intervento contenente «misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio», non meglio definite.

La Corte costituzionale ha fatto applicazione degli stessi principi della sentenza n. 85 del 2013 in base ai quali il legislatore, pur in presenza di sequestri dell’autorità giudiziaria, può intervenire per consentire la prosecuzione dell’attività in stabilimenti di interesse strategico nazionale, ma a condizione che vengano tenute in adeguata considerazione, e tra loro bilanciate, sia le esigenze di tutela dell’ambiente, della salute e dell’incolumità dei lavoratori, sia le esigenze dell’iniziativa economica  e della continuità occupazionale. In quell’occasione, la Corte ritenne che tali principi fossero stati rispettati; in questo caso, invece, la Corte ha ritenuto che il legislatore abbia privilegiato unicamente le esigenze dell’iniziativa economica e sacrificato completamente la tutela addirittura della vita, oltre che dell’incolumità e della salute dei lavoratori.

Pertanto, stavolta i giudici costituzionali hanno dichiarato illegittima la norma oggetto del giudizio, oltretutto introdotta e tenuta in vita con un’anomala procedura legislativa: la norma era stata infatti introdotta con un decreto-legge subito dopo il sequestro dell’impianto, poi era stata abrogata apparentemente con la legge di conversione di un altro decreto legge ma, simultaneamente, era stata trasposta in un altro articolo della stessa legge di conversione, con una clausola che manteneva per il passato gli effetti già prodotti. (fonte: Comunicato Corte Costituzionale del 23 marzo 2018)

______________

Sentenza Corte Costituzionale n. 58 2018

Sentenza 58/2018 (ECLI:IT:COST:2018:58)

Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE

Presidente: LATTANZI - Redattore: CARTABIA

Camera di Consiglio del 07/02/2018;    Decisione  del 07/02/2018

Deposito del 23/03/2018;   Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate: Art. 3 del decreto-legge 04/07/2015, n. 92.

Massime:

Atti decisi: ord. 67/2017

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto nel procedimento penale a carico di S. R. e altri, con ordinanza del 14 luglio 2015, iscritta al n. 67 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 febbraio 2018 il Giudice relatore Marta Cartabia.

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Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 14 luglio 2015 (r. o. n. 67 del 2017), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) in riferimento agli artt. 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, 41, secondo comma, e 112 della Costituzione.

1.1.– Il rimettente ha precisato di essere investito della decisione sull’istanza, depositata nella segreteria del Pubblico ministero del medesimo Tribunale e da questi trasmessa all’ufficio del giudice per le indagini preliminari, avanzata dalla difesa di ILVA spa in amministrazione straordinaria (d’ora innanzi: ILVA), affinché venisse data attuazione al citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 in riferimento al sequestro preventivo dell’altoforno denominato “Afo2” presso lo stabilimento di Taranto della società.

1.2.– Si procedeva, infatti, a carico di R. S. e altri dirigenti e tecnici in servizio presso tale stabilimento, in relazione ai reati di cui agli artt. 110 e 437, commi 1 e 2, del codice penale – per avere, in concorso, omesso di predisporre cautele volte a prevenire la proiezione di materiale incandescente e strumentazioni idonee a garantire l’incolumità dei lavoratori, da cui è derivato l’infortunio mortale di un operaio – e agli artt. 113 e 589 cod. pen., per avere determinato la morte del predetto operaio mediante le omissioni di cui sopra.

Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero ha disposto, con decreto del 18 giugno 2015, il sequestro preventivo d’urgenza, senza facoltà d’uso, del citato altoforno, ravvisando le esigenze cautelari di cui all’art. 321, commi 1 e 2, del codice di procedura penale.

Con ordinanza del 29 giugno 2015, il rimettente ha convalidato il decreto del pubblico ministero e ha disposto il sequestro preventivo dello stesso impianto, senza facoltà d’uso.

È quindi intervenuto l’impugnato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015, la cui rubrica recita: «Misure urgenti per l’esercizio dell’attività di impresa di stabilimenti oggetto di sequestro giudiziario». Il comma 1 prevede che «[a]l fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia, l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro […] quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori», specificando che ciò era già previsto dall’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell’ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231. Il comma 2 aggiunge che «[t]enuto conto della rilevanza degli interessi in comparazione, nell’ipotesi di cui al comma 1, l’attività d’impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro». Il successivo comma 3 stabilisce poi che «[p]er la prosecuzione dell’attività degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuità, l’impresa deve predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall’adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all’impianto oggetto del provvedimento di sequestro», aggiungendo che «[l]’avvenuta predisposizione del piano è comunicata all’autorità giudiziaria procedente». Il comma 4 dispone, inoltre, che «[i]l piano è trasmesso al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici della ASL e dell’INAIL competenti per territorio per le rispettive attività di vigilanza e controllo, che devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l’attuazione delle misure ed attività aggiuntive previste nel piano», ulteriormente precisando che «[l]e amministrazioni provvedono alle attività previste dal presente comma nell’ambito delle competenze istituzionalmente attribuite, con le risorse previste a legislazione vigente». Infine, il comma 5, contiene una disposizione transitoria, in base alla quale «[l]e disposizioni del presente articolo si applicano anche ai provvedimenti di sequestro già adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto e i termini di cui ai commi 2 e 3 decorrono dalla medesima data».

1.3.– I difensori di ILVA hanno chiesto al pubblico ministero di dare attuazione al citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015, il quale, nella loro interpretazione, dispone una sospensione ex lege dell’esecuzione del vincolo reale, rispetto alla quale il provvedimento dell’autorità giudiziaria competente – individuata nel pubblico ministero in quanto organo che si deve occupare dei profili esecutivi del sequestro preventivo – assumerebbe mero valore dichiarativo.

1.4.– Il pubblico ministero ha trasmesso gli atti per la decisione al giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale, esprimendo parere contrario all’accoglimento dell’istanza.

In particolare, la pubblica accusa ha ritenuto che il citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 non potesse caducare il provvedimento di sequestro in atto, in quanto altrimenti si sarebbe realizzata un’ingerenza del potere legislativo nelle prerogative di quello giudiziario. Inoltre, il provvedimento di sequestro di uno degli altoforni non avrebbe compromesso l’intera attività di impresa, con la conseguenza che la disposizione in esame – la quale è dichiaratamente volta allo scopo di garantire la continuità dell’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale – non sarebbe stata applicabile alla specie. L’organo competente a decidere sarebbe stato, dunque, il giudice delle indagini preliminari, quale organo che aveva emesso il provvedimento di sequestro sulla cui «sostanza» la disposizione legislativa avrebbe inciso.

In via subordinata, lo stesso pubblico ministero ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale del citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015.

1.5.– Il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto di essere competente a decidere sull’istanza.

Secondo il rimettente, infatti, la disposizione in esame avrebbe sottoposto il sequestro a una condizione sospensiva negativa di efficacia – realizzata dalla mancata predisposizione, da parte dell’impresa, di un piano di intervento entro trenta giorni dal provvedimento – e a un termine dilatorio eventuale, così da stabilire la durata massima dell’esercizio dell’attività d’impresa per un periodo di dodici mesi in pendenza del vincolo cautelare.

Ricostruita in tal modo la portata della disposizione, il giudice a quo ha ritenuto che essa attenga all’esecutività del titolo, sulla quale è competente a decidere, ai sensi dell’art. 665, comma 1, cod. proc. pen., il giudice che lo ha deliberato.

Secondo il giudice per le indagini preliminari, inoltre, si sarebbe dovuto procedere nelle forme dell’incidente di esecuzione, adottando la procedura semplificata di cui all’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., applicabile analogicamente (e a maggior ragione) ai casi, come quello di specie, in cui occorra decidere sull’efficacia del sequestro, anziché sulla confisca e sulla restituzione delle cose sequestrate.

1.6.– Il rimettente ha poi ritenuto che il citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 sia applicabile alla specie sottoposta al suo giudizio.

Infatti, pur considerando che la lettura proposta dal pubblico ministero «non si presenta affatto peregrina», anche in considerazione di «una tecnica normativa impropria (determinata probabilmente dalla fretta)», ciò nondimeno la disposizione avrebbe dovuto ritenersi applicabile anche ai casi in cui, come nella specie, «le misure cautelari attingano, nel concreto, non l’intero stabilimento, bensì soltanto singoli impianti, e non comportino necessariamente l’interruzione dell’attività d’impresa»: ciò in quanto nei commi 3 e 4 del medesimo art. 3 ci si riferisce rispettivamente all’«impianto oggetto del provvedimento» e ad «aree di produzione oggetto di sequestro». Inoltre, il richiamo alla precedente normativa, riguardante la prosecuzione dell’attività negli impianti dello stabilimento ILVA, renderebbe inequivoca l’applicabilità del citato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 anche al sequestro di singoli impianti.

1.7.– Considerata perciò la rilevanza – e pur nella consapevolezza che, nelle more della decisione della Corte costituzionale, sarebbero stati adottati probabili interventi emendativi della disciplina censurata – il giudice a quo ha ritenuto suo dovere investire il giudice delle leggi dei dubbi, non manifestamente infondati, di legittimità costituzionale del citato art. 3, del quale egli avrebbe dovuto fare applicazione «qui e ora» per decidere sull’istanza difensiva sopra descritta.

Il rimettente, infatti, ritiene che la disposizione censurata presenti profonde differenze rispetto alla precedente disciplina di cui agli artt. 1 e 3 del d.l. n. 207 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 231 del 2012, considerata non affetta da illegittimità costituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 85 del 2013, per la presenza di «specifici contrappesi normativi», mancanti nella specie ora in esame, e costituiti dalla subordinazione della prosecuzione dell’attività d’impresa all’osservanza dell’autorizzazione integrata ambientale e dalla predisposizione di una precisa procedura di monitoraggio.

Sarebbe perciò assente nella disciplina in esame un ragionevole punto di bilanciamento tra i diversi interessi costituzionali coinvolti e da ciò conseguirebbe l’illegittimità costituzionale dell’impugnato art. 3.

1.8.– In particolare, secondo il giudice a quo, sarebbe violato l’art. 2 Cost., in quanto la norma impugnata, consentendo l’esercizio dell’attività d’impresa, pur in presenza di impianti pericolosi per la vita o l’incolumità umana (come attestato dalla tragica vicenda dell’operaio deceduto), comprometterebbe diritti fondamentali della persona definiti «inviolabili» dalla Carta costituzionale.

1.9.– Il rimettente ritiene che non sia stato rispettato neanche l’art. 3 Cost., in quanto la disposizione in giudizio riserva alle imprese di interesse strategico nazionale un ingiustificato privilegio nell’adeguamento agli standard di sicurezza rispetto agli altri operatori economici, finendo altresì per esporre i lavoratori di tali aziende a fattori di rischio più elevato, così violando, sotto entrambi i profili, il principio costituzionale di eguaglianza.

1.10.– Il giudice a quo ravvisa, poi, una violazione degli artt. 4 e 35, primo comma, Cost., in quanto il diritto al lavoro presuppone condizioni di sicurezza nell’esecuzione della prestazione, che la normativa censurata compromette.

1.11.– Sarebbe inciso anche l’art. 32, primo comma, Cost., in quanto la disciplina in esame mette in pericolo la stessa vita e incolumità individuale del cittadino-lavoratore, compromettendone il diritto alla salute nella sua forma estrema, senza operare alcun ragionevole bilanciamento con altri diritti.

1.12.– Il rimettente ritiene inoltre violato l’art. 41, secondo comma, Cost., in quanto la prosecuzione dell’attività in un impianto pericoloso e mortale, in presenza di un progetto unilateralmente predisposto dall’azienda interessata e non sindacabile o controllabile da altri, non rispetta il principio costituzionale che esige che l’attività economica privata si svolga in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

1.13.– Infine, il giudice a quo ritiene pregiudicato il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., che deve ritenersi operante non solo nel potere-dovere di repressione dei reati, ma anche in quello di prevenzione dei medesimi, che si esplica anche nell’adozione di misure cautelari reali di carattere preventivo. La disciplina censurata, in assenza di qualsiasi punto di equilibrio, comprometterebbe irragionevolmente, e perciò illegittimamente, tale «potestà costituzionale», consentendo il perpetuarsi di una situazione penalmente rilevante quanto meno ai sensi dell’art. 437 cod. pen. e, in caso di incidenti, degli artt. 589 e 590 cod. pen.

1.14.– Manifestamente infondato viene invece considerato il dubbio di legittimità costituzionale dedotto dal pubblico ministero per violazione dell’art. 3 in relazione all’art. 77, secondo comma, Cost.: il rimettente, infatti, ritiene sussistenti nella specie le ragioni che devono sostenere la decretazione d’urgenza.

2.– Nelle more della scadenza del termine per la conversione del d.l. n. 92 del 2015, l’art. 1, comma 2, della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria) ha abrogato il censurato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015, prevedendo, peraltro, che restino validi gli atti e i provvedimenti adottati e che siano fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base della disposizione abrogata. Il testo della disposizione abrogata è stato riprodotto, tuttavia, nell’art. 21-octies della medesima legge n. 132 del 2015.

3.– Con atto depositato il 6 giugno 2017 è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.

Ad avviso dell’Avvocatura generale l’abrogazione della disposizione censurata determinerebbe l’inammissibilità delle questioni per «sopravvenuta carenza di interesse».

Nel merito si evidenzia come il nuovo art. 21-octies della legge n. 132 del 2015 consenta la prosecuzione dell’attività produttiva per un periodo massimo di 12 mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro e a condizione che entro trenta giorni sia predisposto un piano contenente misure aggiuntive, anche di natura provvisoria, per la tutela della sicurezza dei lavoratori sull’impianto oggetto di cautela reale. Il suddetto piano deve essere comunicato all’autorità giudiziaria e al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici dell’ASL e dell’INAIL competenti per territorio per le rispettive attività di vigilanza e di controllo.

La difesa erariale osserva, sulla base di quanto si evince dalla relazione di accompagnamento alla legge di conversione del d.l. n. 83 del 2015, che la disciplina di cui all’art. 21-octies si pone in linea di continuità con l’art. 1, comma 4, del d.l. n. 207 del 2012, ed è volta a salvaguardare i livelli di occupazione compatibilmente con la tutela dell’ambiente e della salute dei lavoratori. La disposizione censurata, pertanto, godrebbe della medesima copertura costituzionale già riconosciuta alla precedente disciplina dalla sentenza n. 85 del 2013 della Corte costituzionale.

Ne deriverebbe, in conclusione, la non fondatezza delle questioni sollevate. [/panel]

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Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 14 luglio 2015 (r. o. n. 67 del 2017), trasmessa a questa Corte con le formalità richieste il successivo 7 febbraio 2017, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale).

L’art. 3 impugnato prevede, al comma 1, che: «[a]l fine di garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell’attività produttiva, di salvaguardia dell’occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell’ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia, l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro, come già previsto dall’articolo 1, comma 4, del decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231, quando lo stesso si riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori»; al comma 2 che: «[t]enuto conto della rilevanza degli interessi in comparazione, nell’ipotesi di cui al comma 1, l’attività d’impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a 12 mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro»; al comma 3 che: «[p]er la prosecuzione dell’attività degli stabilimenti di cui al comma 1, senza soluzione di continuità, l’impresa deve predisporre, nel termine perentorio di 30 giorni dall’adozione del provvedimento di sequestro, un piano recante misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio, per la tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro, riferite all’impianto oggetto del provvedimento di sequestro. L’avvenuta predisposizione del piano è comunicata all’autorità giudiziaria procedente»; al comma 4 che: «[i]l piano è trasmesso al Comando provinciale dei Vigili del fuoco, agli uffici della ASL e dell’INAIL competenti per territorio per le rispettive attività di vigilanza e controllo, che devono garantire un costante monitoraggio delle aree di produzione oggetto di sequestro, anche mediante lo svolgimento di ispezioni dirette a verificare l’attuazione delle misure ed attività aggiuntive previste nel piano. Le amministrazioni provvedono alle attività previste dal presente comma nell'ambito delle competenze istituzionalmente attribuite, con le risorse previste a legislazione vigente»; al comma 5 che: «[l]e disposizioni del presente articolo si applicano anche ai provvedimenti di sequestro già adottati alla data di entrata in vigore del presente decreto e i termini di cui ai commi 2 e 3 decorrono dalla medesima data».

Il giudice a quo ritiene che la diposizione impugnata violi una pluralità di parametri costituzionali e, segnatamente, gli artt. 2, 3, 4, 32, primo comma, 35, primo comma, 41, secondo comma, e 112 della Costituzione.

Più precisamente, l’art. 2 Cost. sarebbe violato in quanto la norma impugnata consentirebbe l’esercizio dell’attività d’impresa pur in presenza di impianti pericolosi per la vita o l’incolumità umana, e così comprometterebbe diritti fondamentali della persona definiti «inviolabili» dalla stessa Carta costituzionale.

Non sarebbe rispettato il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., in quanto il legislatore riserverebbe alle imprese di interesse strategico nazionale un ingiustificato privilegio nell’adeguamento agli standard di sicurezza rispetto agli altri operatori economici, esponendo altresì i lavoratori di tali aziende a fattori di rischio più elevato.

Sarebbero violati anche gli artt. 4 e 35, primo comma, Cost., in quanto il diritto al lavoro presuppone condizioni di sicurezza nell’esecuzione della prestazione, che la normativa censurata non assicurerebbe.

Anche l’art. 32, primo comma, Cost., sarebbe inciso, in quanto la disciplina in esame metterebbe in pericolo la vita e l’incolumità individuale del cittadino-lavoratore, senza operare alcun ragionevole bilanciamento con altri diritti coinvolti.

Ancora, la prosecuzione dell’attività d’impresa in un impianto che espone i lavoratori a pericolo di vita, consentita dalla disposizione impugnata alla sola condizione che l’azienda predisponga un progetto per la messa in sicurezza delle aree interessate, non rispetterebbe il principio costituzionale di cui all’art. 41 Cost., che esige che l’attività economica privata si svolga in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.

Infine, la prosecuzione dell’attività di impresa determinerebbe il perpetuarsi di una situazione penalmente rilevante – quanto meno ai sensi dell’art. 437 del codice penale e, in caso di incidenti, degli artt. 589 e 590 cod. pen. – compromettendo così il principio di obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., che deve ritenersi operante non solo nel potere-dovere di repressione dei reati, ma anche in quello di prevenzione dei medesimi, quale si esplica nell’adozione di misure cautelari reali di carattere preventivo.

2.– In via preliminare occorre osservare che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio e ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate per «sopravvenuta carenza di interesse», determinata dall’abrogazione della disposizione censurata.

2.1.– Per valutare l’eccezione di inammissibilità occorre ricostruire l’anomalo intreccio di interventi normativi che ha interessato la disposizione oggetto del presente giudizio.

A tal proposito si deve in primo luogo osservare che, prima della scadenza del termine per la conversione del decreto-legge n. 92 del 2015, contenente la disposizione in esame, è sopraggiunta la legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria), che è legge di conversione di altro decreto-legge: con una prima disposizione (art. 1, comma 2), essa ha abrogato il censurato art. 3 del d.l. n. 92 del 2015 e contestualmente previsto una clausola di salvezza per gli effetti giuridici nel frattempo prodottisi; nello stesso tempo, con l’art. 21-octies, ha reintrodotto la previsione abrogata, nella sua letterale identità.

Dunque, la legge n. 132 del 2015 ha formalmente abrogato e simultaneamente salvaguardato e riprodotto il precetto normativo contenuto nell’impugnato art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015.

La norma introdotta dalla disposizione impugnata ha, pertanto, continuato ininterrottamente a esplicare effetti nell’ordinamento, dalla entrata in vigore del decreto-legge impugnato fino ad oggi, assicurando una copertura legislativa al protrarsi dell’attività d’impresa nello stabilimento ILVA di Taranto, compresa quella dell’altoforno, nonostante l’intervenuto sequestro.

2.2.– Non è, quindi, fondata l’eccezione di inammissibilità prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato per sopravvenuta carenza di interesse, dato che la norma oggetto del presente giudizio è rimasta nell’ordinamento senza variazioni di contenuto e senza soluzione di continuità, pur sotto la specie di diversi precetti legislativi concatenati fra loro.

Questa Corte ha già affermato che «la norma contenuta in un atto avente forza di legge vigente al momento in cui l’esistenza della norma stessa è rilevante ai fini di una utile investitura della Corte, ma non più in vigore nel momento in cui essa rende la sua pronunzia, continua ad essere oggetto dello scrutinio alla Corte stessa demandato quando quella medesima norma permanga tuttora nell’ordinamento – con riferimento allo stesso spazio temporale rilevante per il giudizio – perché riprodotta nella sua espressione testuale o comunque nella sua identità precettiva essenziale, da altra disposizione successiva» (sentenza n. 84 del 1996). In tale occasione, la Corte ha inteso sottolineare «la funzione servente e strumentale della disposizione rispetto alla norma», specificando che «è la immutata persistenza di quest’ultima nell’ordinamento ad assicurare la perdurante ammissibilità del giudizio di costituzionalità» (sentenza n. 84 del 1996).

Nel caso ora in esame, la tecnica normativa – a seguito della quale, dopo che è stata sollevata questione di legittimità costituzionale, è stata solo apparentemente abrogata la disposizione contenente la norma in giudizio (la quale, infatti, ricompariva in un’altra disposizione del medesimo atto legislativo) e sono stati fatti salvi gli effetti pregressi prima ancora che scadesse il termine per la conversione del decreto-legge originario che la conteneva – reca pregiudizio alla chiarezza delle leggi e alla intelligibilità dell’ordinamento, in conseguenza dell’uso del tutto anomalo della legge di conversione. Ai fini della valutazione sull’ammissibilità della questione sollevata deve osservarsi che l’effetto finale è stato quello di assicurare, pur nel succedersi delle disposizioni, una piena continuità normativa della disciplina oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale. Pertanto, in una tale evenienza, il susseguirsi delle disposizioni non fa venir meno la perdurante rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata e non ne pregiudica l’esame nel merito da parte di questa Corte. Diversamente, si consentirebbe al legislatore di dilazionare, ostacolare o addirittura impedire il giudizio di questa Corte, in contrasto con il principio di economia dei giudizi (sent. 84 del 1996) e a scapito della pienezza, tempestività ed effettività del sindacato di costituzionalità delle leggi, compromettendo in modo inaccettabile la tutela di diritti fondamentali, specie se connessi, come nel caso in esame, alla tutela della vita.

2.3.– Posto che, come affermato dalla medesima sentenza n. 84 del 1996 (e da ultimo ribadito dalla sentenza n. 44 del 2018), la Corte costituzionale «giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni», occorre ora chiarire quali siano le disposizioni sulle quali si riverberano gli esiti del sindacato di costituzionalità, alla luce della particolare sequenza di interventi legislativi che hanno riguardato la norma in giudizio.

Sotto questo profilo, il caso odierno si differenzia da quello giudicato con la citata sentenza n. 84 del 1996. Allora la Corte ritenne che la questione potesse essere «trasferita», seppure «in senso figurato», sulla disposizione che veicolava gli effetti della norma nell’ordinamento al momento del giudizio. All’epoca si trattava di un caso di reiterazione di decreti-legge dopo la scadenza del termine per la conversione, con salvezza degli effetti pregressi, secondo una prassi che sarebbe stata di lì a poco censurata dalla Corte stessa con sentenza n. 360 del 1996. Pertanto, con la sentenza n. 84 del 1996, la Corte si pronunciò sulla disposizione che sanava gli effetti del decreto-legge non convertito.

Nel caso che questa Corte è chiamata oggi a giudicare, invece, la disposizione originaria è stata solo apparentemente abrogata prima della scadenza del termine di conversione, con una disposizione che contemporaneamente faceva altresì salvi gli effetti giuridici nel frattempo prodottisi e, dunque, prima che l’originario decreto-legge impugnato decadesse con effetti retroattivi divenendo inapplicabile nel giudizio a quo. Inoltre, diversamente da altri casi, la norma in apparenza abrogata, in realtà, è stata nel contempo trasfusa in altra disposizione di quella medesima legge che ne disponeva l’abrogazione. L’iter seguito dal legislatore è dunque tortuoso e del tutto anomalo: non si tratta, infatti, né di una semplice mancata conversione, né di una reale abrogazione e neppure di una abrogazione con successiva diversa regolamentazione. Nella specie, sotto l’apparenza di una abrogazione, la successione di disposizioni legislative dissimula (attraverso un uso improprio della legge di conversione) una effettiva continuità di contenuti normativi che, traendo origine dalla disposizione iniziale “abrogata”, permangono grazie alla sanatoria e si protraggono nel tempo in virtù dell’articolo che li riproduce. In tale quadro normativo, la norma oggetto del giudizio vive nell’ordinamento in forza di una inscindibile combinazione di disposizioni strettamente interconnesse tra loro. Pertanto, il giudizio di costituzionalità non potrà che investire tutte le disposizioni considerate in combinazione tra loro: vale a dire l’art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015 e gli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge n. 132 del 2015.

3.– Nel merito la questione è fondata.

3.1.– La disposizione impugnata prevede che «l’esercizio dell’attività di impresa degli stabilimenti di interesse strategico nazionale non è impedito dal provvedimento di sequestro […] quando lo stesso di riferisca ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei lavoratori» (art. 3, comma 1). Essa è stata adottata al dichiarato fine di «garantire il necessario bilanciamento tra le esigenze di continuità dell'attività produttiva, di salvaguardia dell'occupazione, della sicurezza sul luogo di lavoro, della salute e dell'ambiente salubre, nonché delle finalità di giustizia» (art. 3, comma 1) e intende porsi in linea di continuità con la precedente normativa in materia di esercizio dell’attività di impresa in stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale, contenuta nel decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207 (Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 231. Tale normativa, esplicitamente richiamata nell’incipit della disposizione in esame, è stata oggetto della decisione di questa Corte n. 85 del 2013 ed è alla luce dei principi ivi stabiliti che la odierna questione di legittimità costituzionale deve essere esaminata.

In tale pronuncia questa Corte ha affermato che «è considerata lecita la continuazione dell’attività produttiva di aziende sottoposte a sequestro, a condizione che vengano osservate […] le regole che limitano, circoscrivono e indirizzano la prosecuzione dell’attività stessa» secondo un percorso di risanamento – delineato nella specie dalla nuova autorizzazione integrata ambientale – ispirato al bilanciamento tra tutti i beni e i diritti costituzionalmente protetti, tra cui il diritto alla salute, il diritto all’ambiente salubre e il diritto al lavoro.

Non può infatti ritenersi astrattamente precluso al legislatore di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa; ma ciò può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco.

Per essere tale, il bilanciamento deve essere condotto senza consentire «l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona» (sent. n. 85 del 2013). Il bilanciamento deve, perciò, rispondere a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, in modo tale da non consentire né la prevalenza assoluta di uno dei valori coinvolti, né il sacrificio totale di alcuno di loro, in modo che sia sempre garantita una tutela unitaria, sistemica e non frammentata di tutti gli interessi costituzionali implicati (sentenze n. 63 del 2016 e n. 264 del 2012).

Nel caso allora in giudizio, questa Corte, con la citata sentenza n. 85 del 2013, rigettò la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che il legislatore avesse effettuato un ragionevole e proporzionato bilanciamento predisponendo la disciplina di cui al citato art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 207 del 2012. In quella ipotesi, infatti, la prosecuzione dell’attività d’impresa era condizionata all’osservanza di specifici limiti, disposti in provvedimenti amministrativi relativi all’autorizzazione integrata ambientale, e assistita dalla garanzia di una specifica disciplina di controllo e sanzionatoria.

3.2.– Nel caso oggi portato all’esame di questa Corte, invece, il legislatore non ha rispettato l’esigenza di bilanciare in modo ragionevole e proporzionato tutti gli interessi costituzionali rilevanti, incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita.

Infatti, nella normativa in giudizio, la prosecuzione dell’attività d’impresa è subordinata esclusivamente alla predisposizione unilaterale di un “piano” ad opera della stessa parte privata colpita dal sequestro dell’autorità giudiziaria, senza alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati.

Il legislatore concede un termine di trenta giorni per la predisposizione del piano, il quale peraltro può anche essere provvisorio: dunque, manca del tutto la richiesta di misure immediate e tempestive atte a rimuovere prontamente la situazione di pericolo per l’incolumità dei lavoratori. Tale mancanza è tanto più grave in considerazione del fatto che durante la pendenza del termine è espressamente consentita la prosecuzione dell’attività d’impresa “senza soluzione di continuità”, sicché anche gli impianti sottoposti a sequestro preventivo possono continuare ad operare senza modifiche in attesa della predisposizione del piano e, quindi, senza che neppure il piano sia adottato. L’unico limite temporale effettivo è posto al comma 2, che stabilisce che l’attività di impresa non può protrarsi per un periodo di tempo superiore a dodici mesi dall’adozione del provvedimento di sequestro.

Quanto al contenuto, il piano deve recare «misure e attività aggiuntive, anche di tipo provvisorio», non meglio definite, neppure attraverso un rinvio, che pure sarebbe stato possibile, alla legislazione in materia di sicurezza sul lavoro. Il mancato riferimento a specifiche disposizioni delle leggi in materia di sicurezza sul lavoro o ad altri modelli organizzativi e di prevenzione lascia sfornito l’ordinamento di qualsiasi concreta ed effettiva possibilità di reazione per le violazioni che si dovessero perpetrare durante la prosecuzione dell’attività.

Nella formazione del piano non è prevista alcuna partecipazione di autorità pubbliche, le quali devono essere informate solo successivamente. Tale comunicazione assume la forma di una mera comunicazione-notizia, per quanto riguarda l’autorità giudiziaria procedente (art. 3, comma 3) e si traduce nell’attribuzione di un generico potere di monitoraggio e ispezione per quanto riguarda INAIL, ASL e Vigili del Fuoco; tale potere, peraltro, si limita alla verifica della corrispondenza tra le misure aggiuntive indicate nel piano e quelle in concreto attuate dall’impresa, così da renderne ambigua e indeterminata l’effettiva possibilità di incidenza (art. 3, comma 4).

3.3.– Considerate queste caratteristiche della norma censurata, appare chiaro che, a differenza di quanto avvenuto nel 2012, il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.).

Il sacrificio di tali fondamentali valori tutelati dalla Costituzione porta a ritenere che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Rimuovere prontamente i fattori di pericolo per la salute, l’incolumità e la vita dei lavoratori costituisce infatti condizione minima e indispensabile perché l’attività produttiva si svolga in armonia con i principi costituzionali, sempre attenti anzitutto alle esigenze basilari della persona.

In proposito questa Corte ha del resto già avuto occasione di affermare che l’art. 41 Cost. deve essere interpretato nel senso che esso «limita espressamente la tutela dell’iniziativa economica privata quando questa ponga in pericolo la “sicurezza” del lavoratore» (sentenza n. 405 del 1999). Così come è costante la giurisprudenza costituzionale nel ribadire che anche le norme costituzionali di cui agli artt. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la massima attenzione per la protezione della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori (sentenza n. 399 del 1996).

4.– Considerato assorbito ogni ulteriore profilo e chiarite quali siano le disposizioni sulle quali si riverberano gli esiti del sindacato di costituzionalità per le ragioni esposte al precedente punto 2.3, si deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge n. 92 del 2015 e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge n. 132 del 2015.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. [/panel]

[panel]

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2015, n. 92 (Misure urgenti in materia di rifiuti e di autorizzazione integrata ambientale, nonché per l’esercizio dell’attività d’impresa di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale) e degli artt. 1, comma 2, e 21-octies della legge 6 agosto 2015, n. 132 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 2015, n. 83, recante misure urgenti in materia fallimentare, civile e processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2018.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente
Marta CARTABIA, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 marzo 2018.

Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA [/panel]

Fonte: Corte Costituzionale

Collegati:
[box-note]Decreto Legge 4 luglio 2015 n. 92
Legge 6 agosto 2015 n. 132 [/box-note]

Aggiornamento abilitazioni attrezzature in scadenza il 12 marzo 2018

https://www.certifico.com/sicurezza-lavoro/5488-aggiornamento-abilitazioni-attrezzature-in-scadenza-il-12-marzo-2018

Aggiornamento abilitazioni attrezzature in scadenza il 12 marzo 2018

Il 12 marzo 2018 scadono i termini previsti per l’adempimento dell’obbligo di aggiornamento delle Abilitazioni Attrezzature di cui al comma 5 dell’art. 73 del D. Lgs n. 81/08, le cui modalità sono state definite dall’Accordo Stato Regioni del 22 febbraio 2012.

Accordo Stato Regioni del 22 febbraio 2012 - punto 9. Riconoscimento della formazione pregressa

[panel]9.1. Alla data di entrata in vigore del presente accordo sono riconosciuti i corsi già effettuati che, per ciascuna tipologia di attrezzatura, soddisfino i seguenti requisiti:

a) corsi di formazione della durata complessiva non inferiore a quella prevista dagli allegati, composti di modulo teorico, modulo pratico e verifica finale dell’apprendimento;
b) corsi, composti di modulo teorico, modulo pratico e verifica finale dell’apprendimento, di durata complessiva inferiore a quella prevista dagli allegati a condizione che gli stessi siano integrati tramite il modulo di aggiornamento di cui al punto 6, entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore del presente accordo;
c) corsi di qualsiasi durata non completati da verifica finale di apprendimento a condizione che entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore del presente accordo siano integrati tramite il modulo di aggiornamento di cui al punto 6 e verifica finale dell’apprendimento.

Il punto 9.2 di tale accordo è stato modificato dall’Accordo Stato Regioni del 7 luglio 2016 sui percorsi formativi per RSPP e ASPP, rettificando un errore di stesura dell’accordo attrezzature e chiarendo che gli attestati di abilitazione hanno una validità di 5 anni dal 12 marzo 2013 (data di entrata in vigore dell’accorso attrezzature).[/panel]

Accordo Stato Regioni del 7 luglio 2016  - punto 12.11 Modifiche all'accordo per l'individuazione delle attrezzature di lavoro per le quali è richiesta una specifica abilitazione degli operatori, ai sensi dell'articolo 73, comma 5, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (53/CSR del 22 febbraio 2012).

[panel][...]Il punto 9.2 dell'Accordo Stato-Regioni del 22/02/2012 è sostituito dal seguente:

Gli attestati di abilitazione conseguenti ai corsi di cui al punto 9.1 hanno validità di 5 anni a decorrere rispettivamente dalla data di entrata in vigore del presente Accordo per quelli di cui alla lettera a), dalla data di aggiornamento per quelli di cui alla lettera b) e dalla data di attestazione di superamento della verifica finale di apprendimento per quelli di cui alla lettera c).[/panel]

Pertanto, per ciascuna Abilitazione conseguita in sede formativa, i datori di lavoro devono far seguire un corso di aggiornamento di quattro ore ai propri operatori, entro il 12 marzo 2018.

Correlati:
[box-note]D.Lgs. 81/2008 Testo Unico Salute e Sicurezza Lavoro
Accordo Formazione RSPP 2016: i nuovi percorsi formativi
Accordo Formazione RSPP 2016: i nuovi percorsi formativi - Focus[/box-note]

Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. n. 30437 | 19 dicembre 2017

Sentenze cassazione civile

Cassazione Civile Sent. Sez. Lav. 19 dicembre 2017 n. 30437

Caduta al suolo del neo assunto. Nessun comportamento abnorme

Presidente: D'ANTONIO ENRICA
Relatore: RIVERSO ROBERTO
Data pubblicazione: 19/12/2017

[panel]Ritenuto

che la Corte d'Appello di Caltanissetta, con sentenza n. 416/2011, rigettava l'appello proposto da E.S., titolare di omonima impresa edile, avverso la sentenza del tribunale di Caltanissetta ed in parziale riforma elevava a € 52.272,48 l'ammontare della somma dovuta dall'appellante in favore dell'Inail a titolo di regresso ex artt. 10 e 11 d.p.r. n. 1124/1965 per infortunio sul lavoro avvenuto in data 18 gennaio 1999 ai danni di M.A., allorché quest'ultimo alle dipendenze della predetta impresa, durante i lavori di ristrutturazione di un vecchio immobile sito in Trapani, ebbe a cadere al suolo da una impalcatura sulla quale era salito per verificare la stabilità del ponteggio esistente;
che a fondamento della sentenza, per quanto qui interessa, la Corte sosteneva che gravasse sul titolare dell'impresa il preciso obbligo non solo di fornire, ma di assicurarsi che il lavoratore facesse effettivo uso del casco e della cintura di sicurezza, aggiungendo che non si potesse ritenere che il comportamento posto in essere dal M.A. (salire sulla parte non calpestabile del ponteggio e appoggiare il piede sulla mantovana) fosse connotato da abnormità e/o imprevedibilità;
che contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione E.S. con tre motivi, illustrati da memoria, mentre l'Inail ha resistito con controricorso;[/panel]

[panel]Considerato

che il primo motivo deduce violazione o falsa applicazione degli articoli 10 e 11 d.p.r. 1124/1965, artt. 2697, 2729, 2087, 1218, c.c., insussistenza di prova in ordine al nesso causale, art. 115, 116 c.p.c. Inammissibilità dell'azione di regresso. Articolo 2087 c.c. Error in iudicando (in relazione all'articolo 360 numero 3 e 5 c.p.c.). Vizio di motivazione in ordine alla sussistenza del fatto reato (art. 360 numero 3 e 5);
lamenta il ricorrente che la Corte non abbia accertato se nell'occorso sussistesse o meno un'ipotesi di fatto reato penalmente perseguibile d'ufficio, posto che il giudizio penale si era concluso con un provvedimento di archiviazione; che inoltre il giorno dell'evento M.A. si era recato sui luoghi di lavoro per un sopralluogo volto alla verifica della stabilità del ponteggio da smontare senza ricevere nessuna direttiva dal datore di lavoro, come comprovato dalla testimonianza di A. dalla quale discendeva che il comportamento del lavoratore era da porsi come causa esclusiva dell'evento;
[...]
che per il resto i motivi sollevano, oltretutto in modo contraddittorio (posto che vi si afferma che il datore non ha dato direttive al lavoratore), questioni di merito già correttamente esaminate, senza vizi logici e giuridici, dalla Corte competente, e che non sono suscettibili di esame da parte di questa corte di legittimità, alla quale il ricorso domanda un generale riesame del materiale probatorio al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto e senza neppure denunciare effettivi vizi di motivazione ai sensi dell'articolo 360 numero 5 c.p.c. applicabile ratione tempore il quale postula l'omessa, insufficiente o contraddittoria valutazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio;
che le stesse censure sono peraltro infondate nel merito, atteso che l'infortunio è avvenuto sul luogo di lavoro e nella esecuzione di una attività lavorativa in relazione alla quale lo stesso datore di lavoro, il quale accampa come propria giustificazione di "non avere impartito nessuna direttiva al lavoratore", sostiene nel contempo di avergli fornito i necessari mezzi di sicurezza; mentre egli, oltre che fornire i presidi di protezione, aveva il preciso obbligo di individuare anzitutto ogni situazione di rischio presente sul luogo di lavoro, di informare tempestivamente e dettagliatamente il lavoratore e di sottoporlo alla opportuna vigilanza in ordine al corretto impiego dei medesimi mezzi di prevenzione, essendo tra l'altro al suo primo giorno di lavoro;
che salire su una parte non calpestabile del ponteggio ed appoggiare un piede su una mantovana non costituisce comportamento connotato da abnormità e/o imprevedibilità in quanto non esorbitava dall'attività lavorativa; posto che, come affermato nell'immediatezza dei fatti dal testimone A., il lavoratore infortunato era salito sul ponteggio, in quella parte ove erano sistemate delle mantovane costituite da due tavole poste al riparo dei calcinacci, proprio al fine di procedere allo smontaggio delle stesse; in quanto il punteggio esistente doveva essere smontato, perché già ritenuto non conforme alle esigenze di sicurezza; e ciò richiedeva, evidentemente, l'impiego di una ulteriore attenzione e di una supplementare cautela da parte del datore di lavoro, garante della sicurezza, il quale ha invece adibito ad una attività particolarmente pericolosa un lavoratore, come il M.A., al primo giorno di assunzione ("appena assunto"), senza dargli adeguate informazioni e vincolanti prescrizioni; essendo sufficiente osservare a tal fine che lo stesso teste A., ha affermato testualmente, in relazione al ponteggio in questione, che: "non potevamo immaginare che l'impalcatura non fosse stabile, anche perché dava l'impressione che fosse stabile, né c'era segnaletica che avvisasse della sua pericolosità";
che in conclusione la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure fatte valere col ricorso che deve essere quindi rigettato;
che le spese processuali seguono la soccombenza come da dispositivo;[/panel]

[panel]P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in € 3700 di cui € 3500 per compensi professionali, oltre al 15% di spese aggiuntive ed oneri accessori.
Roma, così deciso nella adunanza camerale del 21.9.2017[/panel]

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Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 57187 | 21 Dicembre 2017

Sentenze cassazione penale

Infortunio di un lavoratore irregolare con una sega circolare elettrica

Responsabilità del committente, direttore tecnico di cantiere e responsabile della sicurezza

Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 57187 Anno 2017

Presidente: IZZO FAUSTO
Relatore: CAPPELLO GABRIELLA
Data Udienza: 25/10/2017

[panel]Ritenuto in fatto

1. La Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio, appellata da M.G.C.A., con la quale costui era stato condannato - per il reato di cui all'art. 590 co. 1 e 3 cod. pen. in relazione all'art. 90 d.lgs. 81/2008, ai danni del lavoratore E.O.T. - alla pena sospesa di mesi cinque di reclusione, oltre al risarcimento dei danni patiti dalla costituita parte civile, con riconoscimento di una provvisionale di euro 15.000,00.
2. Si è contestato al M.G.C.A., nella qualità di Presidente del C.d.A. di GE.MA. s.r.l., impresa committente ed esecutrice principale delle opere edili, di avere cagionato al predetto E.O.T., lavoratore con mansioni di manovale, lesioni personali gravi per colpa generica, consistita in imprudenza, negligenza ed imperizia, e specifica, per inosservanza delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare: per non aver verificato l'idoneità tecnico-professionale del lavoratore in relazione alle funzioni e ai lavori da affidargli con le modalità di cui all'allegato XVII del d.lgs. 81/2008; e per non aver verificato l'idoneità delle attrezzature utilizzate.
In particolare, E.O.T., il giorno 19/04/2010, mentre era impegnato nella posa in opera di un battiscopa in quel cantiere, durante il taglio di un listello di legno con l'utilizzo di una sega circolare elettrica, si era avvicinato oltre misura con la mano destra alla lama circolare, procurandosi una ferita al terzo dito della mano dx e ai tendini estensori e al II dito della stessa mano, da cui era derivata una malattia della durata di gg. 295, con un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un ugual periodo di tempo.
3. L'imputato ha proposto ricorso personalmente, formulando due motivi.
Con il primo, ha dedotto vizio della motivazione ed inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento alla valutazione del compendio probatorio.
La parte contesta la prova di due circostanze, vale a dire l'esistenza nel cantiere del macchinario sprovvisto di protezione e l'impiego del lavoratore al suo interno, essendo emerso a tal proposito che il M.G.C.A. era intervenuto per allontanarlo dai luoghi. Cosicché l'infortunio sarebbe ricollegabile ad una condotta inopinabile del lavoratore, esorbitante dal procedimento lavorativo, cui egli non era addetto, poiché non autorizzato a svolgerlo.
Con il secondo, ha dedotto erronea applicazione della legge penale, a causa dell'errata ricostruzione dei fatti, che la parte ritiene fondata su assunti inesistenti. Osserva il ricorrente che, in base al principio di affidamento, devono essere individuati specifici limiti alla responsabilità datoriale, che sarebbe altrimenti attribuita in maniera automatica, trasformando il principio di garanzia in una forma di responsabilità oggettiva.[/panel]

[panel]Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.
2. La Corte d'appello ha ritenuto che l'imputato, in qualità di committente e responsabile della sicurezza del cantiere, avesse l'onere di assicurarsi, non soltanto prima, ma anche durante lo svolgimento dei lavori, del rispetto delle norme di sicurezza da parte di tutti coloro che operavano all'interno dello stesso, ivi compresi i lavoratori alle dipendenze delle ditte subappaltatrici, ancorché non regolarmente assunti da quest'ultime. Verifica che, secondo la Corte ambrosiana, avrebbe dovuto riguardare anche le attrezzature appartenenti a quelle ditte nel momento in cui esse venivano utilizzate in cantiere, osservando che l'onere di informazione nei confronti degli operai si impone a maggior ragione rispetto ai dipendenti di altre ditte che utilizzino o possano anche solo accedere a macchinari della società committente.
Cosicché, secondo la Corte territoriale, anche a voler ritenere accertato che la p.o. fosse alle dipendenze della ditta E.M., ne conseguirebbe solo la configurabilità di una concorrente responsabilità del presunto datore di lavoro, la posizione di garanzia ricoperta dall'imputato essendo riconducibile comunque alle qualità di legale rappresentante dell'impresa committente, di direttore tecnico e di responsabile del cantiere.
Quanto alla apertura del cantiere e alla ritenuta persistenza della posizione di garanzia ricoperta dall'Imputato, la Corte di merito ha rilevato che esso doveva considerarsi ancora tale, ad onta della formale presentazione della dichiarazione di fine lavori del 04/04/2010, nella quale infatti il M.G.C.A., in qualità di rappresentante di GE.MA. s.r.l., dava atto della esistenza di lavori da ultimare, diffidando in data 13/04/2010 la ditta E.M. ad ultimare le opere. Tra i lavori ancora da eseguire, oltre ai lavori idraulici ed elettrici certamente in corso, la Corte di merito ha ritenuto doversi annoverare anche la posa dei battiscopa, cui era intento il lavoratore E.O.T. al momento dell'infortunio.
In merito, poi, al presunto intervento del M.G.C.A. per allontanare la p.o. dal cantiere e alla conseguenza che la parte appellante vi ha riconnesso (che l'infortunio fosse cioè da ricollegarsi alla inopinabile iniziativa del E.O.T., del tutto eccentrica rispetto al ciclo lavorativo), secondo quanto riferito in sede testimoniale (il riferimento è al teste a difesa R., il quale ha riferito di avere visto l'imputato dialogare con due uomini ai quali stava intimando di allontanarsi dal cantiere e di avere poi notato i due nell'atto di andarsene), la Corte d'appello ha ritenuto che il nesso eziologico non sarebbe stato interrotto da un eventuale intervento dell'imputato nei termini anzidetti, la cui inefficacia ha ricollegato alla circostanza che le stesse persone che il teste riferiva essersi allontanate avrebbero ciononostante portato avanti un'attività lavorativa, utilizzando un macchinario molto rumoroso, trovando così conferma l'assunto che il M.G.C.A. non aveva posto in essere quei presidi e quelle cautele necessari ad assicurarsi che nell'area dì propria competenza non operassero persone non regolarmente assunte, non formate né informate.
Conclusivamente, poi, per quanto attiene alla disponibilità della sega circolare sprovvista dei presidi di sicurezza, la Corte di merito ha rilevato la solidità del quadro probatorio in base al quale il Tribunale aveva ritenuto il macchinario di pertinenza della GE.MA. s.r.l., rilevando risolutivamente la non incidenza della circostanza sulla responsabilità ravvisata in capo all'imputato, i cui oneri non sarebbero venuti meno nell'ipotesi in cui lo strumento fosse appartenuto ad altra ditta operante in quel cantiere.
3. I motivi sono entrambi manifestamente infondati.
3.1. Le questioni che il ricorso ripropone al vaglio di legittimità si polarizzano attorno a censure, con le quali, in definitiva, parte ricorrente contesta il ragionamento probatorio condotto in sede di merito, con riferimento a due profili principali: l'affidamento riposto dal M.G.C.A. sull'efficacia del suo presunto intervento per allontanare due soggetti, uno dei quali dovrebbe essere stata la p.o., con conseguente interruzione del nesso eziologico tra le omissioni contestate e l'evento, che sarebbe conseguenza della sola condotta del lavoratore, del tutto eccentrica rispetto al ciclo lavorativo in corso; la non pertinenza del macchinario sprovvisto dei presidi di sicurezza alla GE.MA. s.r.l., anche alla luce dell'esito positivo della causa introdotta dinnanzi al giudice del lavoro.
3.2. A questo punto s'impone una premessa di ordine generale.
In caso di giudizio conforme di colpevolezza, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei, rispetto a quelli utilizzati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità (Cass. pen., Sez. 1 n. 1309 del 22/11/1993 Ud. (dep. 04/02/1994), Rv. 197250; Sez. 3 n. 13926 dell'01/12/2011 Ud. (dep. 12/04/2012), Rv. 252615). Va pure ribadito che la funzione tipica dell'impugnazione è quella di una critica argomentata al provvedimento che si realizza, a pena di inammissibilità (artt. 581 e 591 cod. proc. pen.), attraverso la presentazione di motivi che devono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Pertanto, il contenuto essenziale dell'atto d'impugnazione è il confronto puntuale, con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso, con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta [cfr., in motivazione, Sez. 6 n. 8700 del 21/01/2013 Ud. (dep. 21/02/2013), Rv. 254584].
Quanto alla natura del sindacato di legittimità, poi, avuto riguardo alla invocata rivalutazione del compendio probatorio, anche di natura dichiarativa, pare opportuno rammentare che gli aspetti del giudizio che si sostanziano nella valutazione e nell'apprezzamento del significato degli elementi probatori attengono interamente al merito e non sono rilevanti nel giudizio di legittimità, a meno che risulti viziato il percorso giustificativo sulla loro capacità dimostrativa, con la conseguente inammissibilità, in sede di legittimità, di censure che siano sostanzialmente intese a sollecitare una rivalutazione del risultato probatorio. Non va infatti dimenticato che sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. Sez. 6 n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), stante la preclusione per questo giudice di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (Sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099).
[...]
4.1. Nello specifico, però, va intanto considerato che le contestazioni formulate a carico del M.G.C.A. sono da ricondursi ad una duplice posizione di garanzia, quale legale rappresentante cioè della ditta committente dei lavori e quale direttore tecnico del cantiere e responsabile per la sicurezza al suo interno, posizioni invero neppure contestate in ricorso.
Cosicché, sul punto, pare sufficiente osservare come, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, la figura del direttore tecnico dei lavori è inquadrabile nel modello legale del dirigente (cfr. sez. 4 n. 39606 del 28/06/2007, Rv. 237879), soggetto, cioè, preposto alla direzione tecnico-amministrativa dell'azienda con responsabilità diretta dell'andamento del servizio, cui spetta, in definitiva, di predisporre tutte le misure di sicurezza fornite dal capo dell'impresa e stabilite dalle norme, di controllare le modalità del processo di lavorazione, vigilare, per quanto è possibile, sulla regolarità antinfortunistica delle lavorazioni (cfr. sez. 4 n. 1345 dell'01/07/1992, Rv. 193034).
4.2. La posizione di garanzia ricoperta dall'imputato, inoltre, è ricollegata anche alla qualità di committente e responsabile dei lavori in esame, in un cantiere nel quale erano impiegate più ditte e più lavoratori dipendenti di esse - anche irregolari - come accertato in sede di merito. Alla pag. 20 della sentenza appellata, il Tribunale ha dato opportunamente atto della circostanza che il M.G.C.A. aveva ammesso di conoscere T.S., dipendente irregolare della ditta E.M., parimenti coinvolta in quei lavori edili, il quale aveva peraltro dichiarato di aver portato con sé l'amico E.O.T. il giorno dell'infortunio proprio su richiesta del M.G.C.A. (cfr., quanto al contenuto della testimonianza del T.S., pagg. 7 e 8 della sentenza appellata).
Peraltro, non risulta che l'imputato avesse nominato un coordinatore per l'esecuzione dei lavori, a norma dell'art. 90 co. 4 d. lgs. 81 del 2008, pur trattandosi di cantiere nel quale era prevista la presenza contemporanea di più imprese esecutrici. Pertanto, egli aveva lo specifico onere di procedere alle verifiche di cui all'art. 90 co. 9 stesso d.lgs. e, tra queste, quella concernente proprio la idoneità tecnico-professionale delle imprese affidatarie, di quelle esecutrici e dei lavoratori autonomi, in relazione alle funzioni e ai lavori da affidare, con le modalità di cui all'allegato XVII.
4.3. Infine, con riferimento alla pretesa interruzione del nesso eziologico, una volta accertato che la p.o. era irregolarmente impiegata in quel cantiere e che l'infortunio è avvenuto nel corso di una lavorazione inclusa a pieno titolo nel ciclo lavorativo, avvalendosi di una strumentazione presente in cantiere e priva dei presidi di sicurezza, si rileva che la condotta colposa del lavoratore può far venire meno la responsabilità del soggetto che ricopre la posizione di garanzia solo ove egli abbia tenuto un vero e proprio contegno abnorme, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (cfr. Sez. 4 n. 22249 del 14/03/2014, Rv. 259127). Sempre con riferimento al concetto di "atto abnorme", si è pure precisato che tale non può considerarsi il compimento da parte del lavoratore di un'operazione che, pure inutile e imprudente, non sia però eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell'ambito del ciclo produttivo (cfr. Sez. 4 n. 7955 del 10/10/2013 Ud. (dep. 19/02/2014), Rv. 259313).
L'abnormità del comportamento del lavoratore, dunque, può apprezzarsi solo in presenza della imprevedibilità della sua condotta e, quindi, della sua ingovernabilità da parte di chi riveste una posizione di garanzia. Sul punto, si è peraltro efficacemente sottolineato che tale imprevedibilità non può mai essere ravvisata in una condotta che, per quanto imperita, imprudente o negligente, rientri comunque nelle mansioni assegnate, poiché la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standards di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro. Il che, lungi dall'avallare forme di automatismo che svuotano di reale incidenza la categoria del "comportamento abnorme", serve piuttosto ad evidenziare la necessità che siano portate alla luce circostanze peculiari - interne o esterne al processo di lavoro - che connotano la condotta dell'infortunato In modo che essa si collochi al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso (cfr. in motivazione Sez. 4 n. 7955/2013 richiamata). In conclusione, tale comportamento è "interruttivo" (per restare al lessico tradizionale) non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 254094).
5. Alla declaratoria d'inammissibilità del ricorso segue, a norma dell'alt. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in € 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità (cfr. C. Cost. n. 186/2000).[/panel]

[panel]P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Deciso in Roma il giorno 26 ottobre 2017[/panel]

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Cassazione Penale Sent. Sez. 3 Num. 40590 | 01 Ottobre 2013

Sentenze cassazione penale

La cessione per riparazione di un macchinario privo delle necessarie condizioni di sicurezza non configura violazione

Cassazione Penale Sez. 3 del 01 ottobre 2013 n. 40590 

Penale Sent. Sez. 3 Num. 40590 Anno 2013
Presidente: GENTILE MARIO
Relatore: GRILLO RENATO
Data Udienza: 03/05/2013
Depositata: 01 ottobre 2013

[panel]Fatto
1.1 Con sentenza dell'11 ottobre 2011, il Giudice dell'Udienza Preliminare del Tribunale di Verbania dichiarava A. Giovanni, imputato del reato di cui all'art. 23 comma 1° del D.L.vo 81/08 [Reato commesso il 20 luglio 2009], colpevole della detta contravvenzione, condannandolo, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di € 1.000,00 di ammenda, cosi diminuita per il rito.
1.2 Il Tribunale, dopo aver sommariamente ricostruito i tratti salienti della vicenda, disattendeva la tesi difensiva basata sulla pretesa inapplicabilità della norma violata in quanto non aderente al dettato normativo che postula una tutela anticipata del bene-sicurezza al momento della costruzione e/o vendita, noleggio, concessione in uso del macchinario , affermando, quindi, che il momento consumativo del reato si perfeziona all'atto di una di dette circostanze (costruzione, vendita, etc).
1.3 Propone ricorso avverso la detta sentenza l'imputato a mezzo del proprio difensore fiduciario deducendo, con un primo motivo, l'inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale (art. 3 del D. L.vo 81/08): pur concordando con la ratio cui si ispira il decreto legislativo in parola (attuazione specifica della tutela antinfortunistica) e - per quanto qui rileva - il divieto di utilizzazione di macchinari non sicuri con correlato divieto di messa in commercio di macchinari che si trovino in condizioni similari, afferma che, nel caso in esame, il macchinario ceduto era, in realtà, destinato ad altra società con la specifica - ed unica - finalità di essere assoggetto a riparazione da quella società onde poi essere messo in commercio in condizioni di sicurezza. Con il secondo motivo la difesa deduce vizio di motivazione per sua carenza e/o manifesta illogicità, sostenendo che la tesi della cd. "continuità normativa" tra l'art. 7 del D.P.R. 547/55 e l'art. 23 del D. L.vo 81/08 (giudicata in astratto corretta) avrebbe dovuto indurre il giudice a motivare specificamente sulle ragioni della non applicabilità della norma laddove - come nel caso in esame - si fosse trattato non di messa in circolazione o di vendita a tali fini, ma di vendita per riparazione con riserva di una messa in circolazione dopo l'esito della riparazione: motivazione, nel caso de quo, per un verso assente e, per altro verso, manifestamente illogica per avere ritenuto soltanto il profilo della vendita equivalente alla messa in circolazione. Con un terzo, ed ultimo, motivo la difesa lamenta vizio di erronea applicazione della legge penale (artr. 133 cod. pen.) per avere il GUP proceduto alla determinazione della pena in termini eccessivi ed in violazione dell'art. 133 cod. pen., applicato in modo erroneo.[/panel]

[panel]Diritto
1. Il ricorso è fondato nei termini e per le ragioni che seguono. Punto di partenza della vicenda è la vendita, in data 20 luglio 2009, da parte dell'A., nella sua qualità di legale rappresentante della TECNO STAMPI s.a.s., di un macchinario (macchina fresatrice Induma 2035) alla società STEMAN s.r.l. di San Lazzaro di Savena. Secondo la prospettazione accusatoria, poi recepita dal G.U.P., tale macchina, al momento della vendita, non corrispondeva alle disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori, in palese violazione della normativa vigente in materia.
2. Nessuna contestazione muove il ricorrente sul fatto storico, in sé considerato, della vendita né sullo stato di irregolarità del macchinario: il punto critico sul quale divergono la soluzione adottata dal Giudice rispetto a quella auspicata dall'imputato è dato dalle ragioni della vendita e, di conseguenza, dalla corretta interpretazione della norma incriminatrice che il ricorrente contesta così come effettuata dal GUP.
3. Il dato normativo di riferimento (art. 23 comma 1° del D. L.vo 81/08, intitolato "Obblighi dei fabbricanti e dei fornitori") testualmente recita: "Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro".
[...]
3.5 Nel caso in esame il raffronto tra il testo dell'art. 7 D.P.R. 547/55, come novellato dall'art. 6 comma 1 del D. L.vo 494/96 e l'art. 23 del D. L.vo 81/08, consente di pervenire agevolmente alla conclusione della continuità normativa, stante l'identità del contenuto precettivo, fermo restando il diverso regime sanzionatorio aumentato nel tempo, ma senza alcuna abrogazione implicita della precedente normativa.
4. Appare ben più interessante verificare se il concetto di vendita come esplicitato nell'art. 23 più volte citato debba interpretarsi in modo assoluto, come divieto di messa in commercio o in circolazione di macchina non a norma, ovvero possa subire un qualche temperamento in chiave derogatoria laddove la vendita venga effettuata per un esclusivo fine riparatorio della macchina in vista di una futura utilizzazione, una volta ripristinata e messa a norma.
4.1 La risposta, a giudizio di questa Corte, è certamente positiva, a condizione, però, che si accerti in concreto quali siano le condizioni di vendita; i soggetti parte dell'atto e gli obblighi gravanti sia sul venditore che sul diretto destinatario, nonché il ruolo da questi esercitato (se, cioè, autorizzato a mettere a sua volta in circolazione il macchinario una volta riparato, ovvero a riconsegnarlo al venditore che potrà poi venderlo a terzi per un utilizzo sul mercato).
4.2 E' evidente, infatti, che se la cessione del macchinario non a norma è effettuata unicamente con il proposito di non metterlo in circolazione ma di affidarlo ad un soggetto (il cessionario) per la riparazione, la previsione normativa non potrà più trovare applicazione.
4.3 Invero è un principio di ragionevolezza, non disgiunto da una regola di ordine economico generale, quello che sta alla base della norma contestata, nel senso che, fermo restando che è vietato l'impiego di macchinari non a norma con la conseguenza che una vendita di prodotti di tal fatta è, di regola, vietata stante la conseguenzialità e normalità dell'impiego della macchina nel ciclo produttivo, nell'ottica del passaggio del prodotto industriale alla fase economica successiva (l'utilizzo), laddove quest'ultimo passaggio non vi sia (come nel caso dello stazionamento del macchinario presso una ditta specializzata esclusivamente nella riparazione per la messa a norma con compiti ben specificati che inibiscono una utilizzazione successiva mediata tramite il venditore all'origine), non può ritenersi vietata la vendita dì un macchinario in quanto avente uno scopo ben circoscritto, senza alcuna previsione di utilizzazione.
[...]
6. Ne deriva, quindi, una motivazione quanto meno insufficiente (avendo il GUP il dovere di accertare, previa escussione del teste, come richiesto dall'imputato all'atto della formulazione dell'accesso al rito abbreviato condizionato le modalità di tale cessione e le sue effettive finalità), se non proprio illogica (nel momento in cui attribuisce alla vendita del macchinario e sulla base della documentazione disponibile, un significato assoluto che la certificazione escludeva) che postula l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio. In tale sede dovrà il giudice verificare in concreto, alla luce delle regole interpretative enunciate da questo Supremo, quali fossero le modalità della vendita e se in effetti la ditta cessionaria STEMAN s.r.l. svolgesse o meno attività di riparazione e riposizionamento a norma di macchinari non in regola secondo le prescrizioni antinfortunistiche del mercato interno.
7. L'accoglimento di tale motivo assorbe ogni altra censura.[/panel]

[panel]P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Verbania.
Così deciso in Roma il 3 maggio 2013. Depositato in Cancelleria il 01 ottobre 2013[/panel]

 

Accordo riparazione macchine non a norma

Modello accordo di "riparazione" macchine non a norma

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Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 53549 | 27 Novembre 2017

Sentenze cassazione penale

Subappalto violazione delle norme antinfortunistiche

Circostanza aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche

Cassazione Penale Sent. Sez. 4 Num. 53549 Anno 2017

Presidente: ROMIS VINCENZO
Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO
Data Udienza: 08/11/2017

[panel]Ritenuto in fatto

1. Con sentenza n. 641/2012 del 10/10/2012, il Tribunale di Macerata -sez. dist. di Civitanova Marche- dichiarava A.L., B.M. e F.A., colpevoli del reato loro ascritto e li condannava alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione ciascuno. Pena sospesa per il B.M. e l'A.L. (per quest'ultimo subordinatamente all'espletamento di giorni 100 di lavoro di pubblica utilità presso ente idoneo).
1.1. Gli imputati erano stati tratti a giudizio per rispondere dei reati di cui agli artt. 590, commi 1 e 2, e 589, commi 1 e 3 (tale comma prevedendo un'ipotesi speciale di concorso formale di reati) cod. pen., perché, F.A. quale legale rappresentante della ditta CEB Impianti s.r.l., subappaltatrice ed esecutrice dei lavori inerenti gli scavi, i getti e i rizzamenti dei pali, B.M. quale assistente tecnico e responsabile dei lavori della ditta appaltatrice Nuova ECEM s.r.l., A.L. quale titolare della ditta appaltatrice Nuova ECEM s.r.l., realizzando o consentendo che venisse realizzata una fondazione di sostegno di un palo in modo non conforme al progetto, o comunque omettendo di controllare l'esatta esecuzione, ed in particolare realizzando o facendo realizzare detta fondazione non come blocco di calcestruzzo monolitico, e senza la necessaria ripresa mediante ferri di collegamento tra le diverse gettate di cemento, ed inoltre inserendo il palo all'interno del getto di cemento con minore profondità di quella prevista e idonea, determinavano lo sradicamento del palo, sul quale stavano lavorando, ad un'altezza di circa 10 metri, B.S. (dipendente ditta Nuova Ecem s.r.l.) e A.F. (dipendente ditta Ceb Impianti s.r.l.), cagionando la morte di B.S., nonché lesioni personali in danno di A.F., guaribili in giorni 60 (tra cui trauma cranico, toracico e addominale, frattura di milza; frattura coste e spina scapolare, frattura ulna e radio ed altre plurime fratture) per colpa consistita in negligenza, imprudenza ed imperizia ed inoltre: per F.A., nel non aver messo a disposizione degli operai idonea casseratura in ferro; per B.M., nell'aver disposto o comunque consentito la realizzazione della fondazione nelle scorrette modalità sopra descritte; per A.L. nel non aver nominato un direttore dei lavori che avrebbe garantito l'esecuzione a regola d’arte dei lavori. In Mogliano il 24/11/2005.
1.1. Con la sentenza n° 2345/2015 del 01/06/2015, la Corte di Appello di Ancona, adita dagli imputati, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava non doversi procedere in ordine al reato di cui all'art. 590 cod. pen. per essere lo stesso estinto per prescrizione; concedeva agli imputati le attenuanti generiche equivalenti all'aggravante di cui all'art. 589, comma 2 cod. pen., contestata in fatto, e riduceva la pena inflitta al B.M. a mesi 6 di reclusione e quella inflitta agli altri appellanti a mesi 9 di reclusione ciascuno; concedeva al F.A. il beneficio della sospensione condizionale; confermava nel resto.
2. Avverso tale sentenza d'appello, propongono ricorso per cassazione A.L., B.M. e F.A., a mezzo dei propri difensori, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all'art.173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.):
A.L.:
I) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 157, 589 cod. pen., 597, comma 3, cod. proc. pen. nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Deduce che, in riferimento all'art. 157 cod. pen., il capo d'imputazione, così come formulato dalla Pubblica Accusa e rimasto invariato nel corso dell'intera istruttoria dibattimentale, contestava con espresso riferimento all'omicidio colposo la violazione dell'art. 589, commi 1 e 3, cod. pen. "tale comma prevedendo un’ipotesi speciale di concorso formale di reati"; si è, dunque, contestato l'ipotesi semplice dell'omicidio colposo in concorso formale con l'ipotesi delittuosa di cui all'art. 590 cod. pen. [...omissis]
II) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'alt. 40, comma 2, cod. pen., nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per aver omesso una completa valutazione della plausibilità della ricostruzione offerta dalla difesa. Deduce che la Corte d'appello ha omesso ogni logica motivazione in ordine alla prospettazione avanzata dalla difesa riguardo il contratto di sub-appalto intercorso tra Nuova Ecem Srl e la Ceb Impianti; i giudici dell'appello avrebbero dovuto spiegare perché le prove acquisite nel corso del processo eliminano ogni ragionevole dubbio sulla ricostruzione dei rapporti tra le ditte oggi condannate. Sostiene che è stato omesso di considerare sia la lettera raccomandata che, in data 19/08/2005, l'Enel inviava a N. Ecem e per conoscenza a Ceb Impianti e con la quale autorizzava il sub-appalto del contratto per l'esecuzione di opere e interventi sulla rete elettrica nella Zona di Macerata alla ditta Ceb Impianti s.r.l., sia la circostanza per cui la Ceb Impianti, non casualmente, redigeva uno specifico Piano Operativo di Sicurezza per i lavori di scavi, getti e rizzamento pali di cui al contratto di subappalto;
III) vizi motivazionali per mancanza, manifesta illogicità o contraddittorietà della motivazione per aver omesso una completa valutazione della plausibilità della ricostruzione offerta dalla difesa, anche con riferimento alle testimonianze rese dai dipendenti di Ceb Impianti. Deduce che il Giudice di merito ha inspiegabilmente omesso una corretta valutazione delle dichiarazioni testimoniali, dando credito a quanto affermato da alcuni testi della difesa F.A., (il C. e il Ce. in particolare), dipendenti Ceb, e omettendo incomprensibilmente qualsiasi richiamo alle affermazioni di tutti gli altri numerosi testi che, invece, hanno sconfessato tali dichiarazioni;§
IV) violazione di legge e vizi motivazionali in riferimento all'alt. 603, comma 3, cod. proc. pen. [...omissis]
I. A.) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 157, 589 cod. pen., 597, comma 3, cod. proc. pen. nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione oltre che travisamento delle risultanze processuali [...omissis]
II. A.) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 40, comma 2, cod. pen., nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione oltre che travisamento delle risultanze processuali. Deduce che la Corte d'appello riconosce un'assoluta carenza di competenze tecniche e della necessaria qualifica professionale in capo all'imputato B.M.; appare, perciò, contraddittoria ed incomprensibile la successiva affermazione della stessa Corte secondo cui il ricorrente per il "ruolo di fatto assunto...non potesse non accorgersi delie macroscopiche incongruenze tecniche del progetto";
III. A.) violazione di legge e vizi motivazionali in riferimento all'art. 603, cometa 3, cod. proc. pen. [...omissis]
I. B.) violazione di legge in relazione agli artt. 178, lett. b), e 416, comma 1, cod. proc. pen. stante l'omessa notifica dell'avviso di conclusione indagini preliminari ex art. 415-bis cod. proc. pen. Deduce che nei confronti dell'odierno ricorrente veniva originariamente notificato avviso ex art. 415-bis Cod. proc. pen. per la ritenuta violazione della fattispecie ex art. 589, comma 1, cod. pen.; successivamente, e cioè con la notifica della richiesta di rinvio a giudizio, il F.A. apprendeva che il Pubblico Ministero aveva esercitato l'azione penale anche per l'ulteriore fattispecie ex art. 590, commi 1 e 3, cod. pen. Sostiene che tale errore procedurale veniva prontamente eccepito in sede di udienza preliminare e alla prima udienza dibattimentale, oltre che essere riproposta in sede di giudizio di appello;
II. B.) violazione di legge in relazione all'art. 3, D.Lgs. 81/2008 e agli artt. 40, comma 2, 589, commi 1 e 2, 590, commi 1 e 2, cod. pen., nonché carenza e/o illogicità della motivazione posta a fondamento del giudizio di responsabilità penale dell'odierno ricorrente. Deduce l'error in iudicando in cui è incorsa la Corte territoriale nel momento in cui riconosce impropriamente una "anomala posizione di garanzia" in capo al F.A.. Sostiene che appare disattesa la normativa speciale in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro (T.U. 81/2008) che espressamente prevede un'ipotesi di esclusione da ogni tipo di responsabilità, anche agli effetti penali, del distaccante dagli obblighi di specifica prevenzione e protezione dai rischi derivanti dallo svolgimento delle lavorazioni in caso di distacco del lavoratore. Assume che, per effetto della citata previsione normativa, sono a carico dei distaccatario tutti gli obblighi di formazione ed informazione, con annesse attività di prevenzione e protezione, delle specifiche lavorazioni svolte in costanza di distacco di personale, residuando al distaccante un "mero" obbligo di informazione e formazione del lavoratore sui rischi generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali viene distaccato; risulta, pertanto, evidente che l'odierno ricorrente non può considerarsi destinatario della censura di colpa specifica formulata a suo carico ed acriticamente recepita dai giudici di merito, posto che l'avvenuto distacco del personale non rende ad egli riferibile il dovere di predisporre tutti gli accorgimenti tecnico-pmfessionali funzionali allo svolgimento in sicurezza dell'attività lavorativa svolta dagli operai distaccati della società CEB Impianti S.r.l. alla Nuova ECEM S.r.l. per la realizzazione dei lavori commissionati da Enel Distribuzione S p.a. Rimarca che, nel caso in esame, come affermato dalla medesima Corte territoriale nella parte in cui affronta la posizione relativa al coimputato A.L., gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni dei lavoratori - cadevano proprio sui Presidente del Consiglio d'Amministrazione della Nuova ECEM S.r.l. poiché tale carica, in assenza di avvicendamenti od incarichi societari, comporta di per sé il sorgere dell'obbligo di protezione dei beni alla cui preservazione tale posizione è preordinata e a ciò deve aggiungersi che, come accertato nel corso dell'istruttoria dibattimentale e confermato nella gravata sentenza, le direttive in ordine alle lavorazioni da eseguire sul cantiere teatro del fatto venivano impartite dallo stesso A.L., il che induce verosimilmente a ritenere che vi fosse una ripartizione di funzioni lavorative imposta dalla complessità delle lavorazione; appare, pertanto, ragionevole e legittimo concludere che allo stesso fosse intrinsecamente delegata la funzione di garanzia, già in suo capo sussistente atteso il ruolo apicale rivestito;
III. B.) violazione di legge in relazione all'omessa rinnovazione dell'Istruttoria dibattimentale e agli artt. 132 e 133 cod. pen. [...omissis]
IV. B.) violazione di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 157, 589 cod. pen., 597, comma 3, cod. proc. pen. nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione oltre che travisamento delle risultanze processuali. [...omissis][/panel]

[panel]Considerato in diritto

3. Occorre preliminarmente, determinare se sia o meno decorso il termine prescrizionale. 
[...omissis]
5.1 A tal fine va rammentato il principio secondo cui viola il divieto della "reformatio in peius" la sentenza del giudice d'appello che, in difetto di impugnazione del P M. abbia ritenuto la sussistenza di una circostanza aggravante esclusa dai giudice di primo grado (cfr. anche Sez. 4, n. 31917 del 06/03/2009 Ud. -dep. 05/08/2009- Rv. 244685; Sez. 5, n. 10543 del 24/01/2001 Ud. (dep. 15/03/2001 ) Rv. 218328: nell'occasione si è, tra l'altro, affermato che la disposizione di cui al comma terzo dell'art. 597 cod. proc. pen., che consente al giudice di appello, anche in presenza della sola impugnazione dell'Imputato e ferma restando la pena irrogata, di dare al fatto una qualificazione giuridica più grave, non consente tuttavia di riconoscere la esistenza di una circostanza aggravante, non ritenuta in primo grado).
5.2 Nel caso che occupa con l'imputazione originaria il P.M. contestava la violazione degli «artt. 590, commi 1 e 2, e 589, commi 1 e 3 (tale comma prevedendo un'ipotesi speciale di concorso formale di reati) cod. pen.» e nel dispositivo della sentenza di primo grado il Giudice dichiarava gli odierni imputati responsabili dei reati agli stessi ascritti e li condannava alla pena di anni 1 e mesi 6 di reclusione ciascuno: in sostanza il Tribunale pur non riconoscendo le attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., al di là della mancata contestazione formale, non riconosceva alcuna aggravante contestabile "in fatto" come emerge dal calcolo della pena finale, non essendovi alcun cenno relativo all'asserita aggravante ritenuta "in fatto" dalla Corte territoriale. Del resto non si rileva alcuna contestazione formale della suddetta aggravante, nemmeno nelle forme di cui all'art. 517 cod. proc. pen. e, secondo il Giudice di primo grado, l'evento derivò «da un errore esecutivo nella predisposizione delle gettata» (come peraltro affermato dal Consulente del PM), senza alcun riferimento al mancato rispetto di norme antinfortunistiche. Né tale violazione risulta adombrata dal funzionario ASUL Marche, intervenuto sul luogo subito dopo il fatto, il quale, escussa in dibattimento, confermava l'errore tecnico, escludendo la violazione d qualsiasi norma volta alla prevenzione degli infortuni (v. verbale di udienza del 15/06/2009) ;
5.3. Occorre, infine, evidenziare che la pronuncia citata dal Giudice dell'appello (Sez. 4, n. 42309 del 18/09/2014) per sostenere la contestazione "in fatto" della circostanza aggravante in questione, atteneva a situazioni del tutto diverse da quelle che occupano. In particolare l'arresto citato riguardava un processo per fatti inerenti un infortunio mortale sul lavoro in cui era stata sin dall'inizio contestata agli imputati la violazione del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 art. 4 comma 5 lett. d), per aver omesso di fornire al lavoratore scarpe antinfortunistiche e del d.lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 7, per aver consentito al lavoratore prestazioni lavorative giornaliere eccedenti le 13 ore non seguite da un periodo di riposo di almeno 11 ore; la pronuncia, 'invero, riguardava tra l'altro una clausola contrattuale con cui erano stati trasferiti all'utilizzatore tutti gli obblighi prevenzionistici gravanti sul datore di lavoro, e per il detto utilizzatore doveva valere il "principio interpretativo affermato da questa Suprema Corte, in base al quale, in tema di delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità della circostanza aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 c.c., che fa carico all'imprenditore di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori".
5.4. In altri termini, vero è che, in tema di delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, per la configurabilità della circostanza aggravante speciale della violazione delle norme antinfortunistiche non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l'evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell'art. 2087 cod. civ., che fa carico all'imprenditore di adottare, nell'esercizio dell'impresa, tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (cfr. Sez. 4, n. 28780 del 19/05/2011, Tessari e altro, Rv. 250761); nondimeno, nella specie, deve escludersi che l'infortunio si sia verificato per violazione di normative antinfortunistiche ovvero del disposto di cui al citato art. 2087 cod. civ. alla luce delle dichiarazioni rese, come sopra già riportato, dal funzionario ASUL Marche, intervenuto sul luogo nell'immediatezza del fatto, il quale, escusso in dibattimento, escludeva la violazione di qualsiasi norma volta alla prevenzione degli infortuni.
6. Da questi presupposti, preso atto della già intervenuta declaratoria di prescrizione del reato di cui all'art. 590 cod. pen. e del riconoscimento -ad opera della Corte territoriale- delle attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., il termine prescrizionale massimo per il residuo reato -così come contestato- deve ritenersi pari a sette anni e sei mesi e, perciò, già decorso al momento della emanazione della sentenza di secondo grado.[/panel] 

[panel]P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata senza rinvio perchè il reato è estinto per prescrizione.[/panel]

[box-download]Tutte le Sentenze[/box-download]

ECETOC's Targeted Risk Assessment

ECETOC’s Targeted Risk Assessment (TRA)

ID 4897 | Update 16.05.2022 / Documenti allegati

Lo strumento ECETOC's Targeted Risk Assessment calcola il rischio di esposizione dei lavoratori, dei consumatori e dell'ambiente ai prodotti chimici. 

È stato identificato dal regolamento sulla registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche (REACH) della Commissione europea come approccio preferenziale per la valutazione dei rischi per la salute dei consumatori e dei lavoratori (ECHA, 2010 a, b).

In risposta ai riscontri ricevuti dagli utenti del TRA, ECETOC ha ulteriormente migliorato la quota del consumatore del modello inserendo la capacità di tenere conto degli usi infrequenti dei prodotti di consumo. Le modifiche sviluppate in collaborazione con l'ECHA si trovano nella versione corrente 3.1 del TRA e si trovano anche nella versione 2.3 di Chesar ( https://chesar.echa.europa.eu ).

Una spiegazione dettagliata della motivazione delle modifiche è contenuta in un addendum al rapporto tecnico ECETOC 114 (pubblicato come rapporto tecnico ECETOC n. 124) che fornisce ulteriori chiarimenti su come ECETOC ha applicato "fattori di trasferimento" nella previsione di TRA di orale, dermico e le esposizioni di inalazione. Questi miglioramenti ora consentono di essere adeguatamente elaborati le informazioni contenute negli sviluppi come i DUCC specifici determinanti per l'esposizione al consumo ( http://www.ducc.eu/Activities.aspx ).

L'aggiornamento alla versione 3.1 è stato utilizzato come un'occasione per includere una lista specifica di rilascio ambientale aggiornato (SpERC) e miglioramenti delle funzionalità offrendo l'esportazione e l'importazione di singoli set di dati di sostanze. La versione 3.1 è disponibile sia come modello integrato che come versione standalone per la parte consumer e può essere scaricata insieme con guide aggiornate per questi strumenti e rapporti tecnici ECETOC TRA.

ECHA. 2010 a. Guida tecnica REACH sui requisiti di informazione e sulla valutazione della sicurezza chimica, Capitolo R14: Estimazione dell'esposizione professionale. Agenzia europea delle sostanze chimiche, Helsinki, Finlandia.

ECHA. 2010 b. Guida ai requisiti di informazione e valutazione della sicurezza chimica, Capitolo R15: Valutazione del rischio di consumo (versione 2, aprile 2010). Agenzia europea delle sostanze chimiche, Helsinki, Finlandia. Addendum a TR114: Base tecnica per il TRA v3.1 (giugno 2014)

Fonte:
ECETOC
European Centre for Ecotoxicology and Toxicology Of Chemicals

ICMM: guida per la valutazione del rischio - 2 edizione

ICMM: guida per la valutazione del rischio - 2 edizione

Valutazione del rischio per la salute dei lavoratori nelle industrie estrattive e dei metalli. 

La guida è fonte di informazione per la valutazione del rischio, dei lavoratori e dei soggetti interessati, nelle industrie estrattive e dei metalli.

Sebbene la guida si soffermi sui rischi per la salute dei lavoratori è importante notare che tali rischi possono interessare anche le comunità che vivono in prossimità dell'attività lavorativa. Lo scopo dell'HRA (health risk assessments) è quello di individuare tutti i rischi per la salute, valutarne il potenziale e determinare delle appropriate misure di controllo.

La valutazione del rischio in ambito minerario e nel settore dei metalli è particolarmente complessa a causa della complessità e durata del ciclo di vita dell'attività lavorativa stessa.

All'interno della guida viene fornito un esempio di approccio quantitativo alla valutazione del rischio. Tale approccio permette di assegnare un valore numerico alla propria valutazione e di classificare il rischio rispetto una tabella che li identifichi. Il metodo più utilizzato si basa su di una matrice bidimensionale.

Fonte

ICMM

Decreto 30 maggio 2017

Decreto 30 maggio 2017

Individuazione del datore di lavoro del Comando carabinieri per la tutela della salute.

Art. 1.

1. Il comandante dei Carabinieri per la tutela della salute è individuato quale datore di lavoro per la sede centrale e le sedi periferiche del medesimo comando, al fine di dare attuazione alle disposizioni contenute nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, citato in premessa.

2. Gli oneri di cui al comma 1 graveranno sul capitolo di spesa n. 3045 p.g.8, nell’ambito della missione «tutela della salute» - programma «vigilanza, prevenzione e repressione nel settore sanitario» - CdR «direzione generale del personale, dell’organizzazione e del bilancio» - Azione
«vigilanza nel settore sanitario svolta dai nuclei antisofisticazioni e sanità dell’Arma dei Carabinieri» dello stato di previsione del Ministero della salute.

Entrata in vigore: 20 luglio 2017

G.U. n. 167 del 20 luglio 2017

Rischio chimico all'entrata in vigore del Regolamento CLP

Rischio chimico negli ambienti di lavoro ed il Regolamento CLP

Dal 1° Giugno l'armonizzazione

A partire dal 1 Giugno 2015 il Regolamento (CE) 1272/2008 relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio (CLP) sarà la sola normativa vigente per la classificazione e l’etichettatura delle sostanze chimiche e delle miscele.

Le valutazioni dei rischi dovranno essere aggiornate sulla base dei pericoli e degli scenari previsti dalla nuova Scheda Dati di Sicurezza (SDS alias MSDS), recependo il cambiamento adeguandosi ai nuovi standard di classificazione delle sostanze e miscele.

Le schede di dati di sicurezza sono un metodo efficace e bene accettato per fornire ai destinatari informazioni su sostanze e miscele all’interno dell’UE e sono diventate parte integrante del sistema di cui al regolamento (CE) n. 1907/2006 (REACH).

Le prescrizioni iniziali del REACH relative alle schede di dati di sicurezza sono state ulteriormente adeguate affinché tengano conto delle norme per le schede di dati di sicurezza stabilite dal Sistema globale armonizzato (GHS) e dell’attuazione di altri elementi del GHS nella normativa della UE introdotti dal regolamento (CE) n. 1272/2008 (CLP) mediante un aggiornamento dell’allegato II del REACH (in appresso ”Revisione dell’allegato II”).

Regolamento (CE) n. 1272/2008 CLP

Regolamento (CE) n. 1907/2006 REACH

Il Prodotto Certifico per redigere adeguatamente una SDS, con illustrazioni di tutte le Sezioni previste:

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